Ciao teleleggitory e buon anno da me, la vostra sconosciuta del web preferita. Come al solito state leggendo anneddoti, la newsletter che parla di vita digitale. Se n’c’avete voglia di leggerla tutta, vi dico di cosa parlo in questa puntata: rifletteremo sul “content”, l’arte sul web e il duro mestiere di chi lavora per intrattenervi su queste piattaforme.
Ho iniziato a scrivere sul web in un blog di Google, poi su quello di MSN; a 16 anni però avevo scoperto una piattaforma italiana che si chiamava Splinder e me ne ero innamorata. Se non avete vissuto quell’internet potete immaginarla come un Substack degli anni 2000, ma con molta più personalità a causa di un sistema di personalizzazione totale del proprio spazio. Non so se all’epoca eravamo tutt* scem* o forse era una cosa gestibile solo perché ancora in piccola scala, ma pensate che bello avere questo ecosistema basato sullo scambio, nessun algoritmo, un botto di gente che commentava per dare la propria opinione e tante persone a creare temi open source da poter avere come grafica. Non vuole essere un discorso tipo “si stava meglio quando si stava peggio”, però concedetemi uno dei sempre più frequenti momenti in cui sospiro guardandomi indietro. Allora non si pensava mica a monetizzare un progetto, a farci business sopra, l’ADSL non era ancora diffusa o comunque non c’era l’usanza né il bisogno dell’always online e di conseguenza si creavano cose (video, articoli, blog, post sui social) quando si voleva. Anzi, proprio sui social network postare spesso portava con sé lo stigma del “non avere una vita” (che ormai è attuale solo per la categoria che identifichiamo come boomer) e i nostri primi, rudimentali approcci sono stati aggiornamenti della nostra quotidianità.
Adesso, mi piacerebbe molto continuare raccontando passo per passo le evoluzioni di internet, ma non posso perché significherebbe dover scrivere un approfondimento e non siamo qui per questo; quindi premeremo fast forward come nelle migliori serie con poco budget ed eccoci qui, anno 2024. Lavoriamo sul e con il web, e anche questo Natale abbiamo faticato a rispondere alla domanda “che lavoro fai?”. Il mio titolo è Head of Contents, ma ho ricevuto troppe facce perplesse per continuare a dirlo fuori da LinkedIn e dai confini milanesi. “Che fai nello specifico?”, mica glielo posso dire, che ho l’ansia del content. So che dobbiamo postare, sempre, su più piattaforme, più volte al giorno. So che ho degli obiettivi da raggiungere, dei numeri da conquistare, delle campagne da avviare, ho da pensare a sempre più modi per far sì che sempre più gente noti l’azienda per cui lavoro.
Oggi siamo qui: si parla di saturazione (o meglio, di media fatigue), a livello accademico in qualità di raggiungimento di un’audience ma anche come percezione dell’utenza sulle piattaforme. Una cosa che abbiamo sperimentato anche nell’ultimo periodo in cui Facebook era il nostro main social; a ogni trend seguivano valanghe di post con il pensiero di ogni nostra amicizia su Facebook su argomento X, cosa che ci faceva chiudere molto velocemente la pagina. Una rassegna stampa di pareri che non volevamo leggere, su tutto lo scibile umano. Segue la migrazione su Instagram di alcuny di noi: “è un posto più tranquillo”, si diceva. Ci sono solo immagini, poche scritte, la cosa più simile a un silenzio quando non lo puoi avere. La saturazione non ha solo la forma dei marketer disperaty perché non hanno azzeccato la nicchia di riferimento, non solo quella della gente esausta dal sovraccarico di informazioni, ma anche quella - meno considerata -dei creator che scrivono di metterci passione, tempo e investimento economico, per avere risultati ben minori di quelli promessi dall’algoritmo slot-machine e dal mito dei big della creator economy.
Ed è proprio dei Creator che parliamo spesso, anche molto in questo periodo e concentrandoci sempre sui guadagni da capogiro e ben poco sul peso psicologico della professione e dell’enorme scommessa che è iniziare a fare questo mestiere consciamente: su Twitch ci sono più streamer che viewer, 20 milioni di canali attivi nel 2023 contro 2.4 milioni di telespettatory. Un report della Goldman Sachs però afferma che la creator economy arriverà a raddoppiare i guadagni nel 2027. Oggi facciamo i conti con un web che genera soldi a palate, ma i destinatar- di questi incassi sono scelti randomicamente da un’entità che in poche persone sanno come funzioni - forse. Io per lavoro mi occupo di far (fare) contenuti, soprattutto per i social e non posso promettere a chi si affida a me la viralità.
NewMartina è una ragazza che cambia i vetri ai telefoni, Donato un uomo che fa panini, Gigi era un venditore di pesce porta a porta. Ovviamente non vuole essere un discorso spregiativo, ma li prendo come paragoni perché non credo che loro, pubblicando su TikTok, avrebbero mai pensato che sarebbero diventati dei Creator, oltre la loro professione principale. È successo a loro e non alla persona X che fa video da un anno e mezzo con il setting super professionale dicendo cose stra-interessanti, non succede alle centinaia di webzine curate maniacalmente. È successo e continua a succedere indipendentemente dalla mole e dalla qualità dei contenuti proposti. Succede per molte variabili, alcune controllabili, altre discutibili, altre totalmente fuori dal nostro controllo. Nessuna di queste cose ci impedisce di continuare a grattare questi gratta e vinci, di giocare questi numeri sulla nostra ruota preferita. Fare questo mestiere è un po’ un azzardo. Continuiamo a farlo, molti strategicamente e altri per gioco, con una logica del “se riesce bene, altrimenti ok”; postiamo sempre meno sui social network in qualità di utenti ma stiamo di più con i telefoni in mano, perché la nostra fonte di intrattenimento sono i Creator.
Creator che devono essere multipiattaforma, always online, saper gestire la community, far sentire l’affetto a tutty, avere un’opinione su tutto, essere compatibili con la nostra etica o avere un personaggio scomodo da indossare in pubblico che possiamo amare o odiare. Che devono essere ridicoly ai nostri occhi perché vogliamo (de)ridere o che devono rappresentare qualcosa per noi, altrimenti che li paghiamo a fare?
Eppure, leggevo un po’ sul web in questi ultimi giorni che essere “content creator” non è un’etichetta dignitosa per alcuny.
E mi chiedo come ci si debba definire, se letteralmente produciamo contenuti che riempiono tutte queste piattaforme che abitiamo. Se siamo chiamaty a produrne tanti, multipiattaforma, ognuno con il proprio linguaggio e spesso con target diversi. Un carosello qui e un reel lì e un vlog e un trend su TikTok. Questo è il nostro lavoro. Intrattenervi, informarvi, farvi scoprire qualcosa, farvi ridere, emozionare, farvi passare il tempo, farvi riflettere. È come rifiutare di chiamarci “persone” perché ognun- di noi ha un’individualità: e grazie al cazzo, direi.
Ci sarebbero molte cose da dire sulla content creation, sul peso psicologico del mestiere e sulla social media fatigue, ma farò come fanno su TikTok: fatemi sapere se volete una parte 2 e noi ci rivediamo alla prossima puntata, ciao!
Cose che ho scritto altrove che vi linko perché sennò che cazz la chiamo newsletter personale se non linko nemmeno i miei pezzi anche se è solo un link vabbè tanto chi legge fino a qui?
• Bluethroot: un videogioco per le scuole sulla salute mentale - Intervista a Fortuna Imperatore - su IGN Italia.
Mi sono perso cosa sia l'elemosina social ma vorrei partecipare al sondaggio. Aiuto.