Shitstorm? Forse cercavi: comportamento standard sul web
Ciao teleleggitory, state leggendo anneddoti, la newsletter che vi parla dell’internet e delle riflessioni che scatena. Oggi parliamo di shitstorm, che in realtà ormai sono diventate una costante in un web sempre più tossico e analizzeremo due casi: Ferragni e Gheno. Se vi piace questa newsletter, considerate l’idea di iscrivervi, condividerla o likarla, anche perché sennò da dove la prendo la serotonina? Ricordatevi che sto a Milano.
“Salve, vorrei stampare delle foto”
”dove ce le ha?”
“Su una chiavetta USB”
“Qual è la cartella?”
“Questa, ecco”
“Quando è morto?”
“Oggi”
“La capisco. Anche io ho perso un animale, il mio gatto è venuto a mancare da poco. Aveva 13 anni. Lo amavo come un figlio.”
”Eh, comprendo, mi dispiace tanto”
”Ohh, Franco, ma tu che fai in giro a quest’ora? Veda lui è un grande amante degli animali. Franco, stavamo parlando di animali, il cane della signorina è morto e mi ha ricordato il mio gatto”
“Mi dispiace molto. È una brutta perdita, ci sono passato. Adesso ho 7 gatti e 3 cani che mi aspettano a casa. La gente non capisce che gli animali su megghiu de cristiani, io a una persona la lascerei a terra, un animale no”
“Infatti! Come i bambini”
“Vero è. Non come la Ferragni che ha fatto quel bordello usando i bambini e la beneficienza, poi si è messa pure contro la Meloni”
“Ma come si permette”
“Infatti, speriamo fallisca”.
Ho imparato da poco a mordermi la lingua per non entrare in discussioni spiacevoli con gente sconosciuta. No, non è vero, non faccio la finta zen, in realtà non l’ho ancora imparato, lo faccio sempre. Però quel giorno non ho aperto bocca, più perché non avevo le forze di iniziare una conversazione potenzialmente ostile, volevo solo stampare le foto del mio cane che era morto quel giorno, dopo 17 anni nella nostra vita, e portarle a casa. Ma sapevo che davanti a me avevo due uomini che parlavano per sentito dire e questo “sentito dire” proveniva dal mondo dell’editoria, online, offline e/o su altri media; loro odiano Ferragni e hanno continuato a ribadirlo per un bel po’.
Volevo parlare, chiedere il perché.
Lo posso supporre: perché tutta la narrazione del pandoro-gate ha avuto lei al centro della vicenda. Nel comunicato stampa, però, e nell’indagine, figurano due responsabili: Ferragni e Balocco. Eppure quest’ultima non ha ricevuto lo stesso trattamento riservato all’imprenditrice e influencer. Sui nostri profili, la stessa storia: lei è colpevole di aver tolto dei soldi a dei bambini malati.
Quindi va insultata sotto i post nel suo profilo. Sulla pagina di Balocco, le accuse non sono contro l’iniziativa - che possiamo supporre con abbastanza tranquillità che fosse interesse primario dell’azienda che letteralmente fa prodotti dolciari coinvolgere Ferragni e non viceversa - ma per essersi legati a lei.
Ferragni ha sbagliato - e infatti è indagata per truffa aggravata, ma l’avversione social(e) su di lei sfiora il patologico: un odio viscerale nato dai semi di patriarcato e di analfabetizzazione digitale, oltre alla frustrazione di un Paese schiacciato dal costo della vita, con il tasso di disoccupazione notevole e con gli stipendi fermi da anni. Non è un personaggio perfetto, non la amo e non siamo imparentate, ed è sintomatico doverlo specificare ogni volta che si prova a parlarne semplicemente non accecaty da qualsiasi sentimento verso la sua persona: sbaglia come migliaia di altre persone che fanno questo mestiere, dentro e fuori.
Non condivido la scelta di utilizzare figlia e figlio sui social, ma questo pensiero si applica a lei e a tutte le altre persone su internet che lo fanno, compresi coloro che piazzano emoji sulle foto della prole convinti di essere i più svegli della cucciolata.
Devo colpevolizzarla e disprezzarla perché è ricca? Perché è figlia del capitalismo? Flash news: ci viviamo immers*. E l’unica cosa che dovremmo portarci a casa dalla vicenda, soprattutto se abitiamo l’internet costantemente e ci piace riflettere su ciò che succede, è che la comunicazione incentrata su Ferragni è malata e il vomito costante di insulti sui suoi profili dice molto di più su di noi che su ciò che fa o non fa una delle tante influencer che abbiamo in Italia.
“Palestina? No, no, grazie, qui parlo de li cazzi mia”
Qualche settimana fa una sorte simile l’ha subita la sociolinguista Vera Gheno; i suoi social sono un’estensione del suo lavoro e/o parte di esso, di conseguenza i post che si possono leggere riguardano la linguistica, la comunicazione digitale e le sue attività (convegni, podcast, eventi, libri), ma anche contenuti più leggeri di vita sua. Un giorno, sul suo Instagram, pubblica la foto della copertina del libro postumo di Michela Murgia.
Sotto questo post appaiono valanghe di messaggi che più o meno aggressivamente, le chiedono “perché non parli della Palestina? Michela Murgia lo avrebbe fatto”. Diventa una vera e propria shitstorm nel momento in cui Gheno scrive un messaggio inappropriato ad un ricercatore - che aveva fatto un’uscita altrettanto infelice. Come succede di solito, opinionisty del web si dividono in fazioni, in giusto o sbagliato, in questa perenne lotta tra bene o male. La riflessione che vi propongo è: se sei attivista e hai un profilo che arriva a migliaia di persone, hai la responsabilità di veicolare dei messaggi che non sono proprio il tuo “tema principale”?
Io stimo ciò che scrive e dice Gheno, ma non sono d’accordo con la teoria “i miei social li uso in maniera differente” (uno dei suoi commenti sotto quel post); poi aggiunge questo: “Ci sono tante forme di militanza. Alcune, quelle su cui posso dire qualcosa di intelligente e utile, le espleto qui. Altre, magari alle quali tengo di più, ma sulle quali non posso dire nulla di realmente utile per le altre persone, altrove”. È vero che ci sono tante forme di militanza, ma è anche vero che, per quanto sia sacrosanta la scelta libera e personale di utilizzare i propri social come si ritiene opportuno, ogni cosa che pubblichiamo o meno diventa una scelta editoriale. E scegliere di non usare il proprio profilo per non esternare non tanto la propria posizione nei confronti di un conflitto - se non ci si ritiene abbastanza informaty - ma per aiutare le tante voci che stanno documentando un genocidio (in questo caso specifico, ma applicabile a tutto) a poter raggiungere una platea maggiore, è qualcosa che può cambiare. Opinioni, ciclo di vita delle iniziative e tanto altro. Ognuno di noi ha ormai un potere in mano, con i propri profili sempre più media e meno social: sfuggire dalla responsabilità non è un atteggiamento che trovo funzionale alla netiquette dell’internet che vorrei. A volte non è necessario dover aggiungere e dire qualcosa. A volte bisogna solo prestare la propria piattaforma a qualcuno che ne ha bisogno e che riteniamo in linea con ciò in cui crediamo, per far sì che gli algoritmi non affossino un argomento, come in questo caso, già penalizzato di suo.
Hai appena letto anneddoti, non è vero, non hai letto fino a qua, non ci credo! Se lo hai fatto e ti è piaciuta, condividila, lasciami un like, un commento, ma te lo devo proprio di’? Non lo sai come funzionano i progetti dell’internet? Se non mi lasci like non mi ami abbastanza? Hai un’altra? Devo essere gelosa?