Sentirsi sbagliati
La scorsa settimana ho ritrovato il backup del mio blog su MSN. Leggevo la Anna che aveva sedici anni, leggevo le sue parole senza filtri, senza sovrastrutture, dalle quali usciva dolore non distillato, dubbi immensi, tanta, tanta paura del futuro, ma anche il saper sorridere delle piccole cose.
Oggi non sarebbe più possibile rileggermi in quella maniera: ho imparato a scrivermi in una maniera posata, a non dare mai voce ai miei pensieri al 100%. Tipo, in un post del blog scrivevo solo VAFFANCULO!
Ecco, in questo momento la mia testa dice solo quella parola. In loop. Sono incazzata.
Poi penso, però, che così facciamo un po’ tutti: smettiamo di essere spontanei come quando eravamo bambini perché iniziano i primi rimproveri, le prime conseguenze delle nostre parole e azioni e ci ritroviamo a modularci, a dare varie versioni di noi alle persone che abbiamo davanti, a capire che è come essere seduti ad una serata di giochi da tavolo e davanti abbiamo tabelloni diversi, pedine diverse, obiettivi diversi, dinamiche diverse, manuali diversi. Ed è un continuo cercare di adattarsi alla situazione e a quel momento, in quel posto. A volte ti diverti. A volte non capisci un cazzo e allora ti fidi di quello che dice l’altro giocatore anche se ti sembra come essere in balia, appunto, di qualcosa che non hai assimilato. A volte semplicemente ci stanno giocando tutti e che fa’, tu non ci giochi?
Ci adattiamo per sopravvivere. Anche se a volte tutto va troppo veloce o ci sembra di non appartenere.
Ci sono stati molti momenti nella mia vita in cui mi sono sentita di non essere parte di ciò che stavo vivendo. Soprattutto in questo periodo, mi ritrovo a dover costantemente tenere su una persona che non sono io.
Mi sento in mutamento, di conseguenza non mi riconosco. Quello è normale: se fino a ieri eravamo dei Pikatchu, è difficile digerire che oggi ci siamo evoluti in Raichu e sebbene la nostra natura sia quella di Pokémon di tipo Elettro e non è cambiata, risulta complicato riconoscerci in un aspetto diverso, caratteristiche e attacchi diversi. Specie nei periodi di transizione, ci sentiamo ancora Pikatchu.
Però c’è anche un’altra tipologia di stanchezza, quella che ci causa il dover perennemente prendere parte a sessioni di giochi che non ci piacciono o dei quali non abbiamo capito le regole. Questa dinamica ci obbliga a travestirci da personaggi che non per forza sentiamo come “noi stessi”. A volte ci ritroviamo a fare mosse che mai avremmo fatto nei nostri veri panni.
E qui partirebbe la domanda: e allora chi siamo davvero? Ma non sono una filosofa e non ho assunto un quantitativo di zuccheri tale da poter eguagliare un trip da allucinogeni, di conseguenza mi arresto qui.
Oltre alla domanda delle domande, si innesca un meccanismo che non solo ci fa chiedere quanto precedentemente detto, ma ci fa sentire così, tremendamente sbagliati.
Cosa si fa quando ci si sente fuori luogo? Quando non ci si capisce? Quando tutto attorno sembra avercela con noi ma non sappiamo quale azione ha causato questa reazione?
La mia natura da aggiustatrice mi porta a voler sistemare ciò che non funziona. Ma ultimamente sto pensando che forse dovrei smetterla con questa attitudine. Utilizzando un’altra metafora, se fossi una macchina e stessi percorrendo una strada piena di buche, potrei sì inventare un pilota automatico che le schiva tutte o dei pneumatici anti-buca (?), non so, ma mi causerebbe forse un dispendio di energie maggiore di, semplicemente, cambiare strada. O chiedere al comune di asfaltare.
Quello che voglio dire è che molto spesso sentirci sbagliati ci porta inevitabilmente a fare una rapida analisi dei nostri comportamenti e ci fa mettere in discussione. Perlomeno, a me succede così. Cerco sempre la configurazione giusta per non sentirmi più… sbagliata. Mi sento come se potessi scegliere sempre il pezzo del Tetris che si incastra con tutto il resto. E invece no. A volte, semplicemente, basta non percorrere le strade con le buche. A volte basta non fidarsi del giocatore che evidentemente non sa le regole. A volte basta studiare il materiale. A volte devi essere quel pezzo che rompe i coglioni lì in mezzo e poco c’è da fare.
Senza il bisogno costante di doversi sentire giusti per poter essere in pace con ciò che c’è attorno a noi.
Perché in fondo, tutti ci sentiamo così e non c’è nulla di speciale o di esclusivo nei nostri stati d’animo: siamo tantissime persone che provano a vivere questa vita nel modo che possono/vogliono. Nel modo in cui ci viene. Giusti o sbagliati.
E comunque, vaffanculo.
Questo corpo che mi vuole bene
Questo Corpo - La Rappresentante di Lista
Vi consiglio di ascoltare questo gruppo e questo brano per riprendervi da Sanremo. Anche loro sono saliti su quel palco, accompagnando tale Rancore nella serata duetti e cover. Ma questo brano (e in realtà tutto l’album) dice molto più di qualsiasi outfit di Achille Lauro, che sicuramente è servito per dare uno schiaffo nazionalpopolare ad un’Italia ancora troppo indietro, ma che probabilmente mancava di un messaggio, quello che invece La Rappresentante di Lista c’ha ed è bello potente. Questo corpo è un inno politico, un pezzo che ha la potenza di parlare a noi e ad un’Italia che non canta di donne, per le donne. Che non canta dei nostri corpi così come sono, ma così come debbono essere desiderati, da Mina a Venditti. Mi ricordo quando, al primo concerto del disco “Go Go Diva”, del quale è stato il singolo di lancio, Veronica Lucchesi (la cantante) ha fatto un brevissimo monologo, del quale vi riporto le parole: “lui non ci ricorda quanto siamo deboli, quanto siamo fragili. Lui ci ricorda tutto l’opposto. Lui ci ricorda quanto siamo forti, quanto possiamo uscire da certe situazioni che ci buttano giù, giù che più giù non si può andare. Lui è lì e ti dice: dammi la mano, dammi la mano, dalla dietro, dalla dietro…” e a questo punto la cantante stringeva la mano a qualcuno nel pubblico, che a sua volta la dava a qualcun altro dietro di lui. Un moderno “segno di pace”, che in realtà si è trasformato in segno di forza. Perché, mentre la catena continua, lo fanno anche le parole: “senti che roba, senti che roba che arriva da questo corpo, senti che energia che arriva da questo corpo, falla arrivare laggiù, falla , mandagliela… questo è quello che fa questo corpo. Noi lo portiamo in giro, è il nostro strumento per fare esperienza della vita, per muoverci nel mondo. Questo corpo è vostro.”
Il video è potentissimo.
Ed è anche girato a mò di Instagram stories, giusto per parlare di “innovazione”, nella musica e nei formati in cui essa si veicola.
Oggi non è andata in onda la puntata di Anneddoti, come avrete notato. Vi lascerò un solo suggerimento, ossia quello di parlare più spesso di ciò che vi fa star male. Di dire quei fanculo che avete in gola, in un modo o nell’altro (io ad esempio non ci riesco mai), di esprimere ciò che vi tenete dentro. Di prendere il vostro corpo e accarezzarlo, di dirvi che va tutto bene. Di non sottovalutarlo.
Molto spesso per evitare di sembrare una lagna vivente o di lamentarci di cose che, confrontandole con i veri mali del mondo, sembrano nulla, ci teniamo dentro robe che diventano macigni o cose minuscolissime che però ostruiscono qualcosa di vitale.
Ecco, troviamo un momento per tirare fuori ciò che ingoiamo. Abbracciamoci.
Io credo che da domani proverò a dire più vaffanculo. Voi?
Se vi va, fatemi sapere cosa vi tenete dentro.