Una delle mie serie preferite in assoluto è The 100. Sono follemente innamorata delle distopie post-apocalittiche e questa serie CW mi ha conquistata nonostante le prime puntate, nonostante tutti i suoi buchi di trama, nonostante non avesse il budget HBO per fare qualcosa con i controcazzi. La amo, con tutti i suoi pregi e difetti.
(metto qui un video che adoro riguardare quando mi viene nostalgia della serie e non ho tempo di fare rewatch - che ho già fatto 5 volte).
Da questa premessa potete capire quanto io abbia subito per anni il fascino di Fallout, senza però poterci mai effettivamente giocare (per assenza di piattaforme su cui farlo). Sono al quarto episodio della serie su Amazon Prime - e solo perché sto cercando di trattenermi dal binge watching, ho voglia di comprare tutto il merch e mentre leggevo la notizia dell’aumento delle vendite dei titoli del franchise videoludico, mi chiedevo: quanto sono accessibili i videogiochi fuori dalla bolla della community di appassionatx?
Questo discorso va oltre l’accessibilità per persone con disabilità (altrettanto importante ma la mia newsletter non è il posto in cui ne parlo - IGN Together sì, prossimamente), quanto sono comprensibili i videogiochi da chi non gioca?
E pensavo al fatto che le grandi testate chiudono i propri vertical dedicati al gaming, nonostante sia una delle industry più profittevoli dell’intrattenimento - e non perché a me interessi qualcosa di parlarne in termini monetari, ma alla società capitalistica che viviamo sì.
Faccio la Head of Contents per una società che lavora nell’industria videoludica - lato esport e gaming media agency, quindi questa è la domanda che mi faccio ogni giorno ad ogni ora, nonché mio mantra: come faccio a rendere fighi i videogiochi per arrivare alla gente che non sa chi è Solid Snake?
Le risposte sono molteplici e alcune di quelle che mi sono data le ho messe in produzione con Outplayed, ma finché non vedranno la luce e non avranno successo, posso solo limitarmi a condividere con voi delle osservazioni che ho fatto, totalmente personali e non supportate da dati. Non perché non servano, ma perché non credo ci siano se analizziamo il panorama italiano.
Ho osservato negli anni la morte dei vertical dedicati al gaming sulle grandi testate, timidi tentativi di rendere l’intrattenimento videoludico al pari di inserti culturali dedicati a musica e spettacolo. Con buona pace di chi li considera ancora passatempo, i videogiochi sono cultura. Lo sono quando sono fatti con poligoni grossi quanto ville e lo sono quando hanno le sembianze di un film (allego video per chi i videogiochi non li mastica molto):
Il punto è che a meno che non si abbiano dei dispositivi abbastanza costosi, come console o PC, i videogiochi rimangono nella loro nicchia.
Ci rimangono anche perché sono un impegno a livello di ore non indifferente. L’esempio che ho fatto su, Death Stranding, si aggira sulle 37 ore di gameplay, 110 se si vogliono completare tutte le missioni extra.
Si tratta anche di intrattenimento “attivo”, il personaggio lo guidiamo noi, di fatto. Non possiamo premere play e tenerlo come sottofondo, o guardarlo distrattamente.
Però ecco, Fallout e The Last of Us stanno facendo ciò che il “giornalismo videoludico” - o la divulgazione videoludica o come volete chiamare il settore - ha fallito: rompere le barriere del gatekeeping e raccontare le grandi storie che chi videogioca vive.
Se tempo fa ci chiedevamo che senso avessero i gameplay su YouTube, adesso sappiamo che sono un tentativo di raggiungere più persone, persone che non possono o vogliono videogiocare ma che, eliminando le barriere, si appassionerebbero alle storie.
Ma manca ancora qualcosa, perché se Fallout registra un aumento di vendite dopo la serie tv, significa che c’è gente a cui Fallout non è arrivato.
E se non è arrivata, forse potrebbe essere colpa delle recensioni che si perdono in tecnicismi e non fanno appassionare al titolo, recensioni scritte solo per “quelpubblicolà”.
Forse potrebbe essere colpa del fatto che ci siamo rinchiusi nei nostri caldi e comodi format per la nostra community, e non abbiamo pensato a usare un linguaggio per arrivare ad altre persone. Altre piattaforme.
Vedo solo rant di chi scrive di videogiochi, polemiche che non vanno oltre le bolle, hype condivisi tra gente del settore e anteprime stampa con “i soliti”.
Forse è ora che i videogiochi vengano raccontati non solo da altre prospettive, ma anche da gente che non gioca?
Chissà. Ciao, ritorno a lavorare, la mia pausa pranzo è finita, voi fatemi sapere.
Ciao Anna, ho letto ora (finalmente!) questo post e condivido ogni sillaba.
Io pure sono una giocatrice dell'ultima ora, mi sono appassionata tardi alle console, prima giocavo solo in sala giochi e sempre agli stessi giochi e fin da bambina mi divertivo molto. Poi, cosa vuoi: lo studio, il lavoro, e "sei grande", etc. Giocavo ogni tanto ad alcuni giochi su PC, ma non facendo parte di nessuna bolla gamer non sapevo cosa succedeva e non ero stimolata a informarmi.
Poi, attraverso il fandom di Star Wars e simili, ho conosciuto gamer, ho preso una PS e ho recuperato alcuni giochi tra quelli che vedevo giocare dagli altri: God of War, Silent Hill, Uncharted, Tomb Rider.
Oggi continuo a giocare e, essendo una giocatrice lenta (amo godermi il viaggio, diciamo così), ci metto parecchio per finire un gioco, specialmente se open world (ora sto giocando a Starfield).
Concordo sul linguaggio usato da commentatori e "esperti" del settore, troppo tecnico e poco avvicente, spesso usano gli stessi termini e capire di cosa cavolo stiano parlando per me è difficile.
Stavo in effetti pensando di fare una recensione "alla mia maniera" di Starfield sul mio canale Youtube appena lo finisco (non so quanto ci vorrà) perché l'esperienza mi sta piacendo molto e mi sono sentita molto coinvolta sia a livello emotivo che intellettuale.
Adoro la fantascienza e l'ambientazione di questo videogioco mi ha stregata. Poco importa se i personaggi sono legnosi, le strutture da esplorare sono spesso identiche e i cattivi sono sempre nella stessa posizione: la storia è affascinante e la grafica mozza il fiato, per cui si tollerano i difetti.
Sono d’accordissimo, bisogna spingere su una comunicazione dei videogiochi che sia diretta anche (o solo) a chi i videogiochi non sa nemmeno cosa siano.