Ovviamente questa cosa volevo scriverla già un paio di giorni fa ma ho continuavo a rimandare perché, beh, lo sapete, è la mia cifra stilistica. Sì, sto vedendo una terapeuta per risolvere la procrastinazione come meccanismo di difesa. Vabbè ma basta parlare di me, innanzitutto ciao, come state? Ah, vero, non potete rispondermi. Cioè, potete ma non è che vi siete iscritti per scrivermi i vostri cazzi, ma per leggere i miei. E io oggi vi parlo di videogiochi. No, non scrollate! Giuro che sarò comprensibile.
Scusate ma che significa che posso pagare per far giocare qualcuno al videogioco che amo ma sul quale sono una pippa al sugo?
Qualche settimana fa ho letto la fantastica Fabrizia Malgieri che sul Corriere della Sera scriveva questo pezzo che descriveva il fenomeno della gente che paga affinché i pro-player giochino con il loro profilo. O meglio, per citare il titolo che incuriosisce molto più del mio riassunto, di “quelli che guadagnano giocando ai videogiochi al posto degli altri” vendendo gli account.
È un fenomeno sempre più diffuso e, a mio avviso, anche assolutamente normale. Vuoi che nella società performativa anche l’hobby videoludico non possa essere considerato un qualcosa da fare bene? E facimmolo buono, ffrah, come dicono su TikTok in questi giorni, sempre per rimanere in tema.
Malgieri, nel suo pezzo, racconta tutto questo andando a toccare vari punti e vi consiglio di leggere il suo articolo, ma per chi soffre di pigrizia e/o per chi non sa molto del mondo videoludico, sintetizzo qui il punto della vicenda: c’è gente che compra account di gioco “livellati” su titoli competitivi principalmente come Call of Duty, Valorant, Fortnite ecc. e c’è gente pro che li vende con statistiche di tutto rispetto, skin e oggetti cosmetici. Aggiungo, c’è anche gente pagata per raggiungere determinati rank o per boostare, come possiamo vedere su Fiverr.
Se non avete mai giocato ai videogiochi competitivi, vi spiego in breve: c’è questa modalità, chiamata ranked o partita classificata; selezionandola, chi gioca inizia un percorso verso il livello più alto raggiungibile, in un determinato lasso di tempo (che varia in base al videogioco ma che è orientativamente nell’unità di misura dei mesi/anno), tutto questo prima che finisca la “stagione” (in cui si ricomincia la scalata). Se si vince, si guadagnano punti, se si perde, si perdono. Se non si gioca per tot. tempo, si viene declassaty. Ad ogni traguardo importante, si sbloccano cornici, medaglie, banner, skin esclusive di personaggi e/o armi.
Prendendo ad esempio League of Legends, uno dei giochi competitivi più famosi in Italia, il grado massimo è il Challenger (Sfidante, in italiano). Chi gioca a questo titolo deve attraversare 10 livelli (Ferro, Bronzo, Argento, Oro, Platino, Smeraldo, Diamante, Maestro, Gran Maestro e Sfidante) in 11 mesi di tempo. Si stima che per player nella media, siano necessarie 2000 partite per raggiungere il grado Maestro partendo da Argento. Se calcoliamo che ogni game dura circa mezz’ora, facciamo presto a capire che si tratta di un’attività che necessita di costanza e di un considerevole numero di ore. Ecco spiegato perché i vostri amicy gamer non escono di casa. Scherzo, ovviamente è uno stereotipo, era una battuta vecchio stile per farvi ridere a nostre spese.
Dopo avervi fatto questa premessa, vorrei arrivare al punto del pezzo che vorrei commentare, che cito qui sotto:
Chi scrive fa davvero molta fatica a comprenderne i motivi: infatti, se c'è qualcosa di appassionante nel mondo videoludico sono proprio le opportunità che offre per mettersi alla prova, sfidare se stessi. La soddisfazione che ne deriva quando si riesce ad annientare un boss all’apparenza invincibile o raggiungere un ottimo punteggio in partita dopo ore e ore di sforzi e tentativi è impagabile. È ciò che ti rende, se vuoi, un videogiocatore puro nell’anima, dove non si cercano facili scappatoie o sotterfugi per vincere. O, semplicemente, siamo solo troppo romantici per cogliere appieno il senso di tutto questo. - Fabrizia Malgieri, Corriere della Sera.
Adoro il romanticismo di Fabrizia, ma credo non comprenda (nel senso di racchiudere, non di capire) una larga fetta di gamer, che dal mio essere millennial etichetterò come “fenomeno della nuova generazione” giusto per atteggiarmi da anziana che scrive cose deliranti per quell* della sua età. Vabbè, comunque dicevo, alla fine le partite classificate ci sono sempre state, sono gli high score delle sale giochi come giustamente scriveva lei, non è questa la novità. Ciò che è cambiato drasticamente nel mondo dei videogiochi è l’aver fatto comunità attorno alla competizione, a questo raggiungimento di obiettivo, e di aver sviluppato algoritmi di matchmaking che spesso rendono frustranti le scalate verso la vetta.
Farò un esempio personale perché è quello che fanno gli anziani sulle riviste, per semplificare e sentenziare sui mondi che non conoscono: io non sono una persona competitiva, zero proprio. Durante la pandemia ho cominciato a giocare a Call of Duty: Mobile, per giocare con amicy che non avevano console o PC da millemila euri. Qui potrei parlare del gaming mobile come la democratizzazione del gaming ma non abbiamo tempo di tergiversare, ho già perso la vostra attenzione alla terza riga.
Dicevo, ho iniziato a giocare ovviamente da casualona (trad. casual gamer) finché un anno fa circa ho deciso di buttarmi nelle partite classificate. Ho scoperto clan, team, tornei, scrim. Quest’ultima parola mi fa sempre pensare a quella canzone di Britney Spears e will.i.am, ma in realtà sono partite d’allenamento (amichevoli) tra squadre, lo dico sempre per chi ci legge e non sa cosa siano gli esport, in cui ci si gioca l’onore e la dignità di ogni membro della propria famiglia - nonostante siano chiamati, appunto, allenamenti. Alla fine senti discorsi su scambi di sensibilità, loadout delle armi, tattiche diverse in mappe diverse e in modalità di gioco differenti - da cerca e distruggi dove devi disinnescare/attivare una bomba a postazione in cui devi tenere possesso di un pezzo di mappa specifico mentre ti tirano tutto l’armamentario possibile - e anche i santi del calendario. Li senti così tanto, se inizi a giocare ad esempio ogni sera, che è impossibile che non si inizi a pensare di voler allenarsi, migliorare. E se il tempo non c’è? E se non ce la si facesse - nonostante gli sforzi? Mi è capitato di dare il mio account ad amici e amiche che mi hanno boostata, perché altrimenti non avrei potuto giocare con loro a causa del mio livello inferiore (che in gergo gaming si identifica come “bot”).
Negli altri giochi, se hai delle statistiche non proprio buone, raramente trovi qualcuno che voglia giocare con te, soprattutto se vuoi farlo a livello competitivo, soprattutto se cresci nell’oggi. Ieri se GianPatrizio aveva fatto il punteggio record sul flipper della sala giochi, lo sapeva lui e tutto il baretto; oggi se io faccio una partita di merda mi insultano i miei compagni di squadra, quelli della squadra avversaria e le loro famiglie; se sono live su Twitch con 20 giocatori e gioco male, se ne vanno; se le persone che giocano con me iniziano a fare edit dei loro momenti più belli in game e io sono una pippa al sugo, sono l’equivalente di quando parlavi delle videocassette Disney e tu c’avevi quelle della Stardust; se sono in un ambiente in cui quelly attorno a me sono bravy, inizio a pensare sì, che posso impegnarmi e tutto come dice Malgieri, perché è molto meglio farcela da soli, ma oggi giocare ai videogiochi competitivi è un investimento di tempo mastodontico, e a meno che non ci si chiuda seguendo ritmi insalubri o si abbia del talento, non è detto si arrivi ai livelli dei “pro”. Ora, non voglio dire che sia giusto comprare account già livellati (che poi non cambiano molto la situazione se fai schifo a giocà), ma volevo riflettere - come faccio sempre qui dentro - sulla nostra vita digitale, in questo caso nei videogiochi.
Qui c’è l’altra faccia della medaglia, quella di una comunità di gente che vuole giocare a certi livelli ma non ha il tempo di affinare le sue capacità e magari nemmeno ce le ha, le mani per giocare - o i riflessi, tipo me. Call of Duty, Fortnite, Apex Legends, League of Legends, non sono proprio accessibili ai casual, anche solo per le implicazioni che nascono giocandoci. Certo, nessun medico ci prescrive di farlo, ma sapete quanto è bello giocare a Fortnite con le skin di Goku o di AOT o di qualsiasi altra cosa sulla faccia del pianeta su cui Epic Games ha comprato i diritti? Sapete quanta frustrazione nel vedere amicy che giocano stra bene, che ti invitano a fare qualche partita con loro e provi l’imbarazzo equivalente dello star cantando Come Saprei davanti a Giorgia stessa che crede di star ascoltando una gallina al macello? O quella di ogni ragazzin* che vede coetaney andare a eventi, fiere, avere l’attenzione di un pubblico, per il “solo” fatto di saper videogiocare? I videogiochi sono nella nostra quotidianità, oggi più di ieri. “Ai miei tempi” quando ho finito Final Fantasy VIII dopo più di cento ore e 4 CD non c’avevo la gente fuori casa che mi diceva ommioddio tieni un pacco di soldi sei fantastica facciamo una partnership, avevo mia madre che mi diceva ma che cazzo fai, ma allo stesso tempo era quella a cui potevo passare il pad perché aveva la pazienza di riprovare e riprovare quel boss di Crash Bandicoot che non riuscivo a superare (senza l’estrema vergogna di non riuscire a memorizzare un pattern di attacco); oggi non mi sento di biasimare chi compra gli account, sia perché a volte si comprano per skin/oggetti esclusivi, ma anche perché rappresentano uno status symbol. Come avere l’iPhone. O l’Audi. O la Louis Vuitton. Ed è interessante guardare queste dinamiche, perché continuano a farci riflettere su quanto siamo estremamente umani anche quando siamo tutti pixel.
Se hai letto fino a qui, complimenti! Sei appena salit@ di livello!