Ciao lettori di Anneddoti, buongiornissimo e Happy Hunger Games! May the odds be ever in your favor.
Un saluto da questa lontana zona rossa in cui sono relegata assieme agli altri lombardi che non hanno preso un Intercity ieri notte. Ripeto: raga ma che noia questa distopia. Non ci sono barriere elettromagnetiche che vengono su e ci rinchiudono del tutto, non ci sono gang di divergenti che iniziano a vivere tutti insieme in palazzi abbandonati, non ci sono tute superfighe per uscire con ignoranza a fare la spesa e le nostre armi sono una mascherina, l’amuchina e cantare il ritornello di Baby One More Time mentre ci si lava le mani.
In più la gente al supermercato non ha priorità strategiche: perché il cioccolato me lo lasciate lì ma il pesto alla genovese della Barilla che ha un tempo di digestione maggiore dei tempi di incubazione del Coronavirus lo fate fuori in 3 nanosecondi?
Qualcuno chiami Charlie Brooker: abbiamo bisogno della sua capacità di narrazione di queste giornate.
Vabbè, insomma, quest’oggi vi parlo di due cose che sono saltate fuori in questi tempi bui:
Ma oltre a lavarci le mani, come ci si prende cura di sé e degli altri mentre si sta a casa?
Quante minchiate ci raccontiamo?
E in più vi lascio una lista di serie che vi consiglio, un paio di letture utili e insomma, i soliti linkini, sia mai che troviate qualcosa di utile.
Saper stare insieme anche attraverso la tecnologia
Faccio questa premessa doverosa: non sono una psicologa e non sono un medico.
La cosa che fa paura a tutti è la solitudine. Certo, a me fa più paura quella della Pausini, ma ad ognuno il suo, ci mancherebbe.
Io vi vedo, asociali navigati, vi vedo che state sbuffando dicendo “sì ok vabbè ma che sarà mai qualche giorno a casa”. Però non so, mi metto nei panni di chi non riesce a stare solo nemmeno un secondo. O che sta passando già dal canto suo un periodo difficile e poi gli piomba nella vita l’epidemia condita con abbondante salsa di allarmismo grazie ai media e l’invito caloroso di starsene a casa. E si ritrova con la routine spezzata e la famiglia lontano. Certo, questa non è una giustificazione, bensì uno spunto di riflessione per porci una domanda: come possiamo migliorare il rapporto con noi stessi e la comunità? Come possiamo utilizzare bene e meglio quello strumento che abbiamo sempre tra le mani, ossia lo smartphone e quindi la connessione internet?
Possiamo intanto iniziare a capire che se ci sentiamo soli possiamo condividere una notizia in meno o un insulto in meno sui social, visto che abbiamo raggiunto un overload di informazione e raggiungere l’amico più vicino in rubrica. Fare una telefonata. Mandare un messaggio, un meme. Non è facile, ovviamente. Che però è assurdo, se ci pensiamo, visto che i social network sono nati esattamente per eliminare le distanze ed è proprio in questi momenti che dovrebbe servirci per esserci ‘utili’, in un certo senso. Per farci compagnia, per riscoprirci, per fare due chiacchiere non per forza davanti ad un aperitivo.
È vero: il contatto umano è imprescindibile e con queste belle giornate di sole sarebbe bello fare una gita fuori porta. Ma è altrettanto fruttuoso, bello e arricchente guardare una serie TV, proprio quella che non avevate tempo per iniziare, leggere un libro, imparare a cucinare un dolce, fare qualcosa che non avete mai fatto, giocare ad un videogioco o chiacchierare con chi è attorno a voi. O, se siete soli in casa come me, usare lo smartphone per parlare con quell’amico che non sentite da tanto.
Non sto qui a ripetere le cose che ritroviamo tutti sul nostro feed decine di volte al giorno, ma vorrei chiedere a chiunque di voi si sentisse solo in questi giorni e avesse un senso di ansia a stare obbligatoriamente a casa, di scrivermi se vuole fare quattro chiacchiere. Non è molto, ma è ciò che posso offrirvi.
A questo link potete trovare un documento ufficiale su come gestire lo stress durante l’epidemia. Questo file vi dice di non ricorrere ad alcol e droghe per affrontare il vostro stress, ma insomma, direi che stia un po’ esagerando. Drogatevi.
(Sto scherzando, vi prego, non denunciatemi).
Abbiamo uno strumento potentissimo, che ci permette in un secondo di arrivare sullo schermo di chi vogliamo e comunicare. Abbiamo mille emoji per esprimere un sacco di sfumature. Abbiamo i messaggi vocali, fotocamere, servizi di video-conferenze, giochi in multiplayer, abbiamo letteralmente mille modi di starci vicini. Il fatto che tutto questo sia virtuale non significa che sia qualcosa di meno importante o forte di uno spritz in compagnia in uno dei mille locali sui Navigli.
Impariamo ad apprezzare ciò che tantissimi nerd ci hanno regalato: un modo per starci vicini anche quando siamo lontani, rinchiusi e soli.
Giustificazioni, storytelling personali, minchiate
Qualche anno fa mi sentivo con una tipa, che mi chiese a bruciapelo perché fossi grassa. Ora, tralasciando il fatto che mi chiedesse una cosa che non avrei saputo spiegare, all’epoca mi affrettai a trovare giustificazioni, in preda al panico. Boh, sai, in realtà mangio sempre al ristorante perché ci lavoro e non ho tempo di andare in palestra perché lavoro tipo 12 ore al giorno e poi non sono automunita e vivo in mezzo alla foresta…
E lei mi disse, così, di botto: in realtà stai solo cercando scuse per non affrontare questa cosa.
Mi incazzai un sacchissimo, perché voglio dire, come si permetteva?
Che poi io non credo che certe cose possano essere sintetizzate così, però è anche vero che col senno di poi e tanti anni sulle spalle, ho capito che noi ce ne raccontiamo, di minchiate, per giustificare le cose che combina il nostro cervello. Vuoi perché è pigro e non vuole affrontare le cose, vuoi perché deve dare all’esterno l’idea di essere la persona perfetta che pensa di dover essere, ove per perfezione ovviamente si intende una idealizzazione del sé che si vuole comunicare agli altri. Ergo, tendenzialmente ci inventiamo le peggio minchiate per rimanere nel nostro comodo bozzolo, anche se fa un po’ schifo, visto che la sua funzione è quella di farci diventare delle fottute farfalle e non di rimanerci mentre marcisce tutto.
Quindi col senno del poi devo dare ragione a quella tizia: in realtà non volevo affrontare la mia paura. Poi vabbè, sono una pesaculo e tutto ciò che dicevo era vero, però tendenzialmente tra il non fare una cosa e farla, c’è anche una via di mezzo, ossia fare ciò che si può. All’epoca non lo feci. Probabilmente non ne avevo gli strumenti.
Poi ci raccontiamo le favole, e anche qui, colpevole, vostro onore: tipo per anni mi sono detta “ma no, la mia ex anche se mi ha lasciata, in realtà mi ama!” ma questa piccola storiella nella mia testa serviva per non affrontare la fine di qualcosa. Poi oh, magari continuava a farlo, ma intanto era solo uno scenario che viveva nella mia testa e null’altro. Queste favole servono sempre ai nostri simpaticissimi neuroni per far loro accettare cose che fanno fatica a vedere subito.
Tutto questo per dire che giustificazioni, storytelling personali, sono comportamenti umani che abbiamo tutti e ci servono perché vogliono proteggerci da eventuali traumi. Perché uscire dalle nostre zone di comfort è sempre un trauma.
Nel mondo dei social, però, mi capita spesso di inciampare in questi storytelling forzati. Un costante volgere in positivo o sul personale QUALSIASI cosa che ci accade. Io non ne sono immune, ovviamente.
E farò un esempio su di me, giusto per non additare solo gli altri, sennò che gusto c’è. Anni fa litigai con i miei, per le loro idee sugli omosessuali. Mi scattò l’istinto di sfogarmi sui social. La verità era che avevo paura, stavo piangendo tantissimo e mi sentivo rifiutata dalla mia famiglia, anche se non avevano parlato di me direttamente, in quella discussione. Ma mi sentivo male.
Così avvisai alcuni amici che avevo bisogno di uscire e nel frattempo, per calmarmi, scrissi il mio coming out.
Il mio era un tentativo di volgere in positivo un’esperienza negativa. Di raccontare una storia, anche se in quel momento la storia ero io.
Sicuramente è una cosa che i più grandi fanno già da secoli: artisti, scrittori, musicisti, registi. E sicuramente il mio, di post, aveva molte verità, era me al 100%, anche se non ho scritto “sto piangendo”, si può percepire (almeno per chi mi conosce) che in quel momento stessi davvero male.
Cosa penso non sia bello? Leggere poca autenticità in un racconto sui social. Cercare forzatamente un pretesto per essere il protagonista di una storia non nostra, ad esempio. Succede con moltissimi personaggioni che sfruttano il momento per scrivere la loro riflessione partendo dal momento in cui stanno bevendo il caffè la mattina.
Con questa emergenza, ci siamo ritrovati l’amico di turno che si dispera perché sta andando tutto male, perché non stiamo gestendo bene l’emergenza, perché, perché, perché. Ci siamo ritrovati quelli che hanno fatto storytelling lunghi un rotolone di carta Regina dove ci dicevano che avevano comprato la mascherina, l’ultima, ma poi hanno visto una vecchietta che stava tossendo e l’hanno regalata perché lei in realtà è il simbolo di un’infanzia lunga e felice e di un’Italia che pensa ai più deboli.
Ma raga, l’emergenza non siamo noi. Noi siamo un paio di stronzi che usano la tastiera per comunicare cose e possiamo fare molto meglio, secondo il mio modesto parere.
Odiamo le echo chamber perché in realtà odiamo ciò che ci mettiamo dentro. I contenuti sempre più involucri, costruiti per dare l'apparenza dell'emozione ma composti a tavolino. Sfoghi sulle mode del momento, commenti sempre super "divertenti" perché da qualche anno ci sono le olimpiadi del sarcasmo. Gente che scrive nei gruppi la storia del nonno eroe di guerra o papà morto a causa del cancro per un paio di likes in più di quelli che potrebbe ottenere postandolo solo sul suo profilo. Hashtag al posto delle parole per qualsiasi cosa. Gente che fa dirette Facebook parlando di politica mentre cammina per strada, vomitando cose che rimangono su un server in America e nelle bacheche di qualche malcapitato che ci crederà. Persone che salgono su un palco e ci tengono a raccontartelo, peccato però che a farsi grandi cercando le robe su Google siamo bravi tutti. Davvero, mi piacerebbe leggervi umani. Imperfetti. Utili. In primis a voi stessi. E invece ogni giorno che passa è sempre più tranquillizzante passare il tempo a guardare video di cagnolini. Spontanei. Anche davanti alla telecamera. Come dovremmo essere tutti.
Cose da leggere/guardare/dire/fare/lettera/testamento in questi giorni.
📺 Serie da seguire
Nota bene: tutte le serie che cito sono su Netflix.
I am not okay with this
Divorata in qualche giorno. Se vi piacciono The end of the f ***ing world e Stranger Things, lo adorerete. 20 minuti ad episodio, circa. Narra le avventure di una strana e disagiata teenager in un paesino di provincia che scopre cose più o meno normali su di sé.
One day at a time
La serie che mi riesce a mettere di buonumore. One Day At a Time è una sitcom che parla della quotidianità di una famiglia ispanoamericana, con una nonna che è tutto un programma. Vi metto il trailer perché sono fissata.
The End of the f ***ing world
James ed Alyssa sono due adolescenti con famiglie problematiche e due personalità fuori dagli schemi: si incontrano a scuola ed iniziano un viaggio fatto di chilometri percorsi e disavventure, di ribellione e di paura che li porterà tanto vicino a livello di distanza fisica percorsa tanto lontano nella crescita personale. È la serie adatta se siete dei cinici di merda che però amano un tocco di romanticismo alternativo.
Atypical
Sam è autistico e ha una famiglia di disagiati attorno a lui, che però si vogliono un sacco bene, succedono tante cose ed è una serie riscalda-cuore, almeno a me ha fatto questo effetto.
📘Cose da leggere
Come lavarsi le mani al ritmo di Baby One More Time | Meme
Coronavirus, una parola infetta | Vera Gheno su Treccani
Riflessione sulla Giornata Internazionale della donna | Isabella Borrelli su Facebook
Solidarietà digitale | AGID
Anche questa newslegger è finita qui. Se vi piace ciò che faccio o se non sapete come spendere i vostri soldi visto che non potete farvi l’ape fuori, questo è il mio link, offerto in sacrificio per voi.
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