Buongiornissimo amici internauti e benvenuti al settimo episodio di Anneddoti!
Questo gennaio è stato parecchio movimentato, vè? Tra minacce di una nuova guerra mondiale, l’Australia in fiamme e un nuovo virus che sta scatenando pandemie e nuovi motivi per rispolverare razzismi a caso. Però dai, potrebbe andare peggio, il 2020 potrebbe essere l’anno cruciale per limitare il riscaldamento globale di 1,5° gradi centigradi e di conseguenza evitare il devasto. Ah, sì, lo è.
Insomma! TLDR: Mentana e Open fanno schifo, dobbiamo trovare un modo per evitare che le nostre mamme ci dicano che i virus sono creati in laboratorio e non cielo dikono!1! solo perché lo leggono su Facebook, Wanna Marchi ti vendeva il sale magico, Montemagno ti dice che puoi attrarre il lavoro, ma la prima è una truffatrice e l’altro un genio: raga, WTF? e infine ho origliato la conversazione di due ragazze in metro e una voleva diventare un cyborg.
Alla ricerca dei contenuti virali (letteralmente)
Ben oltre le idee di fake news e clickbait c’è il campo della manipolazione psicologica: siamo tutti qui
L’altra sera mi chiama mio padre, terrorizzato, dicendomi che dovevo andare subito a comprare la mascherina, indossarla e stare lontano dai cinesi, che avevano creato questo virus in laboratorio.
Ora, tralasciando il fatto che mio padre avrebbe quantomeno dovuto imparare qualcosa dai film che ha visto, considerando che sarebbero davvero scemi a preparare un’arma biologica e far cadere la boccetta verde proprio nella loro nazione, no?; vi dico tutto questo perché probabilmente avrete ricevuto una telefonata simile o sentito/letto qualcosa del genere.
Non è un fatto nuovo che la gente reagisca di pancia, soprattutto di fronte a qualcosa che non conosce, soprattutto se non è identificabile, non è tangibile, come un virus.
Errico Buonanno, infatti, scrive:
Manzoni non l’aveva vista, la peste, ma aveva studiato documenti su documenti. E allora descrive la follia, la psicosi, le teorie assurde sulla sua origine, sui rimedi. Descrive la scena di uno straniero (un “turista”) a Milano che tocca un muro del duomo e viene linciato dalla folla perché accusato di spargere il morbo. Ma c’è una cosa che Manzoni descrive bene, soprattutto, e che riprende da Boccaccio: il momento di prova, di discrimine, tra umanità e inumanità. Boccaccio sì che l’aveva vista, la peste. Aveva visto amici, persone amate, parenti, anche suo padre morire. E Boccaccio ci spiega che l’effetto più terribile della peste era la distruzione del vivere civile. Perché il vicino iniziava a odiare il vicino, il fratello iniziava a odiare il fratello, e persino i figli abbandonavano i genitori. La peste metteva gli uomini l’uno contro l’altro. Lui rispondeva col Decameron, il più grande inno alla vita e alla buona civiltà. Manzoni rispondeva con la fede e la cultura, che non evitano i guai ma, diceva, insegnavano come affrontarli. In generale, entrambi rispondevano in modo simile: invitando a essere uomini, a restare umani, quando il mondo impazzisce.
Insomma, il mondo impazzisce sempre, di fronte a fatti del genere. Alcuni di noi stanno facendo il possibile per contenere l’epidemia, altri cercano di trovare la soluzione quanto prima. Tutti però pensano che finisca qui, che questi siano i passaggi da effettuare in queste crisi e stop. Non è così.
C’è un grande compito che spetta ad altri professionisti, ossia giornalisti e comunicatori, quello di informare, tranquillizzare, raccontare, trovare il modo giusto in cui riportare cosa sta succedendo accanto a e lontano da noi. Ma non succede così spesso come vorremmo.
Più di qualche mese fa Enrico Mentana ha voluto prendere la situazione in mano, giustamente: ha deciso di creare un giornale online per dare una possibilità ai giovani di fare questo mestiere senza contratti inesistenti e 4 spicci. Open è stato sin da subito e chiaramente la soddisfazione di questo bisogno da parte del direttore, che però molti hanno preso come testata-simbolo di innovazione nei processi e sottintendendo che assunzioni = più qualità degli scritti.
Ed è qui che si evince un problema di prospettive: ovvio che il bisogno di Mentana era quello di dare della stabilità economica a quei quattro poveracci che vorrebbero fare questo mestiere e farlo nel digital perché siamo young e la carta stampata chi la legge più. Il punto è che tutti guardano Open come un progetto a cui ambire a livello di professionalità, la fonte affidabile da linkare ai tuoi amici.
Poi però vedi scivoloni sempre più frequenti, come quello dei due pazienti sull’ambulanza e ti convinci dell’assunto che nessuna fonte sia al 100% sicura.
Perché siamo oltre le fake news: quella riportata da Open non era di certo una notizia falsa. Faceva e fa peggio, perché non colpisce il lettore abituale ma lo scrollatore, quello che non è lì per informarsi ma perché è uno di 1 milione e duecento e qualcosa che ha messo like alla pagina di Mentana e si ritrova quel titolo: “Esclusivo - ecco i cinesi nell’ambulanza davanti all’hotel Palatino di Roma - Il video”.
Questo è un fatto vero, accaduto, reale. Ma cosa c’è di sbagliato? Lo scrivono nei commenti tantissime persone, supportate anch’esse da migliaia di like. Ormai è troppo tardi, però, la notizia è pubblicata, lì ed espone due cittadini in un momento fragile. Il video è di sei secondi, un uomo in macchina che riprende l’ambulanza dicendo “eccallà, o sapevo, semo fatti” e sotto un paio di righe scrivendo che sono stati accertati i primi due casi di Coronavirus in Italia dopo la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte.
Il meccanismo è semplice: se lo intitolo “Confermati i primi casi di Coronavirus in Italia” sono una delle tante testate che compete in velocità per arrivare prima degli altri sui motori di ricerca e nelle grazie dell’algoritmo; se invece offro qualcosa di più, cambio lo storytelling, c’è più possibilità che la gente clicchi il mio articolo.
Anche perché il 30 gennaio alle ore 22:23, il direttore di Open condivide la prima notizia, che il giornale intitola: “Coronavirus, accertati i primi due casi in Italia”. Quaranta minuti dopo circa piazza il contenuto “esclusivo” di cui vi parlavo sopra.
Ricapitolando: Open pubblica due notizie che vogliono dire la stessa identica cosa (due casi di Coronavirus in Italia) e lo fa con la prima informando, con la seconda attirando coloro che non è riuscito a beccare col primo link, quelli che magari hanno già letto La Repubblica o La Stampa, che però vanno a vedere il video esclusivo che promette il direttore.
Peccato che non abbia nessun valore di notizia, un video di sei secondi di qualcuno che da un veicolo riprende un’ambulanza, quindi la domanda è: perché non ci si sofferma a pensare alle conseguenze di tutti, per un paio di click in più?
Come si spegne questa macchina di manipolazione e persuasione alla rincorsa di click senza una chiara prospettiva se ciò che facciamo è dannoso o meno per i nostri lettori?
Non possiamo vivere senza informazione, senza giornalismo, senza storie. Serve un vaccino anche per questa costante ricerca di viralità, che non è solo ego ma dettata da un obiettivo bisogno di sostenibilità economica delle varie testate.
Intanto la Finlandia lavora sulla prevenzione. Facciamolo anche noi.
Montemagno, suca
La differenza tra Wanna Marchi e Montemagno. Spoiler: nessuna
Wanna Marchi. Ce la ricordiamo? In questo momento sorridete, per l’Arsenio Lupin della tv spazzatura, colpevole di aver venduto del semplice sale spacciandolo per un rimedio contro il malocchio e altre cose. Ridiamo perché non è successo a noi, perché non potrà mai succedere a noi, lo facciamo anche perché troviamo divertente il fatto che qualcuno si sia fatto prendere in giro in questa maniera, nonostante fosse chiaro a tutti quanto fosse una cazzata.
Ovviamente però definiamo Wanna Marchi, sua figlia e il mago Do Nascimento dei delinquenti e come tali, degni di finire anni dopo le loro condanne in un bel programma televisivo a ridere del passato.
Tralasciando il finale dolceamaro, Wanna Marchi non è rimasta impressa nella memoria solo come un’icona del trash condannata per truffa, e mi ritorna in mente mentre osservo, giorno dopo giorno, le dinamiche che si creano sul web.
Non posso fare a meno di pensare a quanto le dinamiche della televendita di Wanna e le attività di consulenti di web marketing vari ed eventuali si somiglino nelle modalità e nel risultato ottenuto: tantissime aziende che credono che un www o un ad su Facebook svolteranno le vendite e il business, credenze supportate da sedicenti personalità che a suon di ricerche su Google e tool di Product Hunt spillano soldi proponendo loro piani editoriali, 50 post al mese e foto dei piatti. Loro ci credono. Gli altri guadagnano.
È questo il mondo, no? Eppure Wanna Marchi è una criminale, mentre Montemagno un genio del marketing.
Wanna Marchi non vendeva il sale da cucina, vendeva una speranza. La stessa che vende Monty, quando vi dice che il lavoro dovete attrarlo e non cercarlo (really?), la stessa che vende tizio X che ti promette un ebook dove imparerai tutto ma proprio tutto e tu ci credi, lo scarichi lasciando i tuoi dati (che sono più preziosi delle 100.000 mila lire lampeggianti sullo schermo della televendita della Wanna), lo leggi e ti dice che per ottenere dei risultati nel tuo business devi aprire un blog, perché un blog ti posiziona. E allora tu lo fai anche se hai una macelleria, inizi a scrivere della carne argentina, della fiorentina, condividi la ricetta del pollo arrosto. Chiedi aiuto ad un consulente, che paghi, per farti dire che dovresti scrivere un post sulla carne di gallina per ottenere il 10% di impressions in più. E tu lo fai perché ti fa capire che le impressions sono importanti. Però vuoi più like alla pagina, perché in qualche modo ti sei convinto che like = clienti e quindi espansione del business e quindi chiedi il miracolo al tuo consulente, che ti dice che per ottenere dei likes bisogna investire su delle sponsorizzate. E allora investi 20, 30, 50, 100, 1000 euro, poiché per funzionare deve essere costante. Devi anche pagare il tuo consulente e il suo social media manager. Hai pagato 3000 euro per comprarti la speranza che funzioni, che questo basti a digitalizzarti e competere con le multinazionali che ti schiacciano. Non conoscendo nulla del mezzo, non puoi fare altro che affidarti alle parole di uno sconosciuto, che a sua volta non può avere la certezza assoluta che i suoi procedimenti possano far crescere la tua azienda.
Perché fare comunicazione non è una scienza esatta. E perché i posti principali in cui le aziende si trovano a competere su internet sono compagnie private che portano in grembo un algoritmo che non sveleranno mai.
Di conseguenza la vita dei web marketer è dirsi che forse la mattina è il momento giusto per postare, perché “la gente sta in viaggio per lavoro e quindi ha tempo di spulciare”, tuttavia il news feed dà priorità ad amici e familiari, di conseguenza chissà se la tua pagina verrà mostrata prima che l’utente si annoi o scenda dalla metro e metta lo smartphone in tasca. Perché se metti un link esterno vieni penalizzato, o almeno credi che sia così perché anche il tuo collega ha notato che. Perché anche targettizzando al meglio, Facebook ti pompa le views e i likes e di conseguenza lui ti vende fuffa e tu la vendi al tuo cliente. Perché non c’è una guida firmata Google con su scritto “ecco come essere primo su Google”. Questo lavoro si basa su best cases e procedimenti che cambiano di mese in mese, su suggerimenti e spunti delle compagnie.
Qual è quindi la differenza tra un web marketer e Wanna Marchi? Nessuna. Perché manca una precisazione a monte. Un’etica. Una frase prima di iniziare i lavori: “questo è un percorso che facciamo insieme. Bisognerà fare molti test. Io posso ottimizzare le tue campagne di advertising per far sì che siano visibili ad un pubblico in target per te e farti spendere meno, non posso garantirti un risultato.”. Basta essere onesti col cliente, non riempirlo di inglesismi e confusione. Soprattutto: far presente che questo lavoro si basa su una piattaforma che ti dà delle linee guida ma non il manuale di gioco. Di conseguenza puoi studiare delle strategie parziali, puoi ottenere risultati parziali.
Erano un sacco carine, dovevate esserci
Da grande voglio diventare una cyborg
“Confido nella tecnologia che fa del bene. Se faranno dei bracci robotici che funzionano bene per tutti me lo faccio tagliare e me lo metto, divento un cyborg.”
Mi piaceva il suo piercing al labbro inferiore, il taglio dei suoi occhi, il modo in cui parlava con la sua amica. Lei, col tono calmo, una voce calda da giovane donna e l’altra praticamente su di giri, un po’ tesa, molto ironica, figlia di una generazione cresciuta a meme e video su YouTube, che spesso citava nella conversazione. Probabilmente con pochi anni di differenza, ma sicuramente con esperienze di vita totalmente diverse, che hanno forgiato il loro carattere in due maniere opposte.
La ragazza col piercing stava spiegando alla sua amica che ha subito un intervento sperimentale al braccio destro. Un trapianto di nervi e muscoli — diceva — che le ha consentito di riacquisire la possibilità di muovere il braccio nelle ‘modalità di default’, ma che, di fatto, non le permetteva di ‘sbloccare’ altri movimenti, come si dice nel linguaggio dei videogame.
Lo spiegava cosciente e un po’ rassegnata, ma quando si accorgeva di esserlo, ecco che sdrammatizzava, facendo sorridere l’amica. Dal canto suo, il volto di lei — mentre il racconto proseguiva — passava in rassegna circa 4 o 5 espressioni, dal preoccupato all’empatia pura, dal divertimento per l’autoironia della ragazza all’ammirazione. E quando la confidenza era stata detta e lo sguardo della giovane donna col piercing si era abbassato, pensieroso, in attesa di un silenzio che riceve chi espone questo tipo di storia, l’amica le chiede se ha mai pensato a “quegli esperimenti con la tecnologia sperimentale”, perché aveva letto e visto qualche prototipo funzionante.
Si scambiano degli sguardi, lei le sorride teneramente, perché l’ottimismo della speranza fa questo effetto, sempre; iniziano ad immaginare come potrebbe funzionare un probabile braccio bionico, lo imitano, ridono. Poi, la frase che un po’ ti aspetti sentire nel 2019, un po’ no: “se faranno dei bracci robotici che funzionano bene per tutti me lo faccio tagliare e me lo metto, divento un cyborg.”. Ci credeva davvero, non stava scherzando. Entrambe avevano convenuto fosse un’ottima idea, che doveva solo aspettare. E ancora: “confido nella tecnologia che fa del bene, se lo fanno ci penso sul serio”. Però, “chissà quanto dovremo aspettare… non credo che possa esserci una tecnologia del genere prima che io diventi vecchia”. Mi intrometto — non resisto — le dico di non perdere la speranza. Le racconto di Neil Harbisson, il primo cyborg al mondo, un artista che si è impiantato una webcam sulla testa, per sentire i colori, mentre l’amica mi guarda entusiasta e ci incita a continuare a parlare, a raccontarci; continua a voltarsi ogni volta che la metro rallenta, per vedere se “è quella, la fermata”. Solo quasi alla fine, mi rendo conto la stesse controllando per lei, che la rassicura. “Ma io non voglio che perdi il treno.” — “e se perdo il treno, che problema c’è? Aspetto un’ora per il treno successivo” — “non voglio che aspetti tanto, io mi preoccupo per te…come una sorella”. Ma era una bugia, lo sapeva lei mentre titubava sulla frase, lo sapeva l’amica che sorrideva maliziosa, mentre gli sguardi si univano, complici e teneri. La ragazza del piercing le sfiorava la mano. L’amica era palesemente tesa — mentre le parlava, mentre si preoccupava di lei. Forse fra qualche tempo scoprirà che sembrava un po’ una cotta, almeno agli occhi di un’estranea davanti a loro. È la mia fermata, ed è anche quella della ragazza col piercing. La vedo scomparire tra il fiume di persone, mentre sorrido pensando alle scene a cui ho assistito, che tanto mi ricordavano l’imbarazzo dei miei primi approcci inconsapevoli a qualcuno che, sempre inconsapevolmente, mi piaceva. Vedo il suo zaino in lontananza e penso che chissà se c’ho visto giusto. E chissà se la ragazza, da grande, diventerà una cyborg.
Cosine da leggere/guardare/ascoltare/baciare/lettera/testamento
Coronavirus: cosa significa lo stato di emergenza globale? Un pezzo for dummies sull’argomento. (Wired Italia)
Perché abbiamo bisogno delle quote rosa: Michela Murgia spiega cose (Post su Facebook)
È stato divertente giocare in allegria.
Grazie mille per aver letto fino a qui, anche oggi. È davvero bello quello che mi scrivete e non posso far altro che ringraziarvi del tempo che dedicate alla mia newsletter, della vostra fiducia.
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Mi raccomando, non serve a nulla indossare la mascherina. A meno che non vogliate travestirvi da Myss Keta, tanto fra poco è pure carnevale.
Buona giornata, buona settimana.