*dlin-dlon* annuncio: da oggi in poi vi scriverò solo lunghe lettere, eliminando i link a fine newsletter, che di fatto adesso diventerà più -letter che news-. Niente paura, però, se vi mancano li trovate in questo gruppo Telegram (o cercatelo digitando @anneddoti), dove vi spammerò le cose più utili/weird/piccole riflessioni/ecc.
Tra qualche settimana molti di noi festeggiano un anno di chiusura in casa, me compresa. Ognuno porta con sé il proprio racconto di questo periodo cercando di romanzarlo quanto meglio – perché è l’unica cosa che ci rimane da fare, dipingerci come ciò che siamo, ossia gli eroi delle nostre stesse storie – soprattutto chi, come me, scrive; come ogni tragedia, cerchiamo segnali pre-catastrofe (es. la nostra vicina che dice “il giorno prima del terremoto, io mi sentivo che stava per succedere qualcosa di strano, il cielo era più nero del solito e avevo fatto un sogno terribile!” et similia), il momento buio, la lotta e poi il lieto fine con la risalita e la morale, esplicita o meno. Abbiamo raccontato a molti – amici lontani, su Zoom, a una cassiera annoiata, alla nostra psicologa, sui commenti di FB di un gruppo a caso – la nostra storia pandemica, come se fosse finita a luglio/agosto con la signora di Mondello che urlava “non ce n’è coviddi!”. Mi piace pensare che quello fosse il season finale dell’Italia, non contando poi lo spinoff natalizio con il DPCM più colorato dei led degli alberi di Natale. Il problema è che la pandemia continua, molti continuano ad essere rinchiusi in casa e il morale di chi non ha accusato il primo lockdown sta andando in picchiata. Sì, ci sono i vaccini. Sì, la convivenza con il virus ci ha permesso di non essere più così spaventati come quando le nostre città erano completamente vuote, vuote da far paura.
Allora mi sono risposta da sola al motivo per cui adesso, per alcuni, è più dura.
Il problema è che siamo rimasti soli al timone della sceneggiatura della nostra storia.
Pensiamoci: prima avevamo un canovaccio comune, degli eventi globali che scandivano la nostra serie, i momenti clou come i canti dai balconi, il lievito scomparso, la carta igienica introvabile, i runner pericolo dell’umanità. Adesso invece è diventata ‘semplicemente vita’, e nessuno si racconta più. Che senso ha dirti che sto male per questa situazione che è ormai diventata la nostra normalità? Prima o poi finirà, ci si dice.
Io intanto cerco di spegnere il mio cervello guardando TV spazzatura online, in attesa dei prossimi colpi di scena della mia vita. Voi cosa state facendo nella vostra new season?
Ciao, io sono Anna e stai leggendo anneddoti, la newsletter di questa sconosciuta sull’internet che arriva più o meno un po’ all’improvviso come la notifica di quell’app che non usate più da duecento mesi ma non la cancellate perché potrebbe servirvi prima o poi metti che diventa la nuova Clubhouse, che parla di cose che succedono sul web e i suoi fenomeni, social, cose lgbtq+ e vita vissuta. Se cercate funnel e call to action, aprite la newsletter di Zara e comprate qualcosa in sconto di cui non avete assolutamente bisogno, non ne metto più, fate lo sforzo e cercatemi su Google però attenzione che non sono né il sindaco, né la pittrice, né la marciatrice – tra l’altro morta RIP –.
Ridere di noi, ridere con noi, di noi
(ossia di come una nottata a guardare video su YouTube mi abbia portata ad approfondire la storia di Rebecca Black scatenando riflessioni sul cyberbullismo, la nostalgia e quelle cose che ci piace citare sui social un po’ a caso o solo nelle giornate internazionali che ricordano queste cose wow che sottotitolo lungo grazie ciao)
La lunga premessa di prima serviva a spiegarvi come sono finita a guardare la storia di Rebecca Black di cui vi parlerò appena finisco questa intro: era notte fonda e l’algoritmo di YouTube mi ha suggerito di vedere questo video. Vabbè, non è vero, lo facevo pure prima dei vari lockdown, perdermi nei meandri del Tubo e scoprire perle pazzesche. Insomma, dopo aver visto un’astrologa cercare di indovinare sulla base di assolutamente nulla il segno zodiacale di 15 estranei, YouTube mi dice “ehy, ehy Anna, pssst! Te la ricordi quella canzone fastidiosissima che si chiamava Friday? EH? Vuoi sapere la sua storia?” e io ero un po’ titubante, sinceramente, perché che storia vuoi che abbia un video stupido su una canzone stupida cantata da una ragazzina che è poi diventata meme e miliardaria?
Però – e qui entra in gioco la forza dell’apatia del lockdown n. 230493204 – ho cliccato play perché stavo aspettando che Morfeo mi picchiasse fortissimo fino a farmi svenire sul letto. E ho scoperto una storia, che voglio raccontarvi.
Friday, per chi si fosse connesso all’internet solo in questi ultimi anni, è stato il primo singolo di Rebecca Black, pubblicato su YouTube il 10 febbraio del 2011, esattamente 10 anni fa, sì. Quell’anno, quel brano passa alla storia come la peggior canzone di sempre, secondo non solo l’autorevole fonte dei media dell’epoca ma anche di testate d’eccezione (il TIME, tipo) e rompe il record della piattaforma diventando il video con più “non mi piace” (3,8 milioni di dislike).
Il perché è presto detto: la canzone fa schifo, il video è fatto pure peggio, a guardarlo oggi col senno del poi sembra uno di quei classici video parodia, costruiti per diventare virali. Dieci anni fa, alcuni critici musicali se lo chiesero pure, se fosse stato fatto “for the lol” e probabilmente, considerati ancora lontani i meccanismi su cui si fonda la cultura digitale di oggi, più smaliziata in materia di viralità (ah-ah, battutona), potremmo rispondere sì, era stato fatto tutto più con lo scopo di divertirsi che di sfondare nello showbiz, almeno da parte sua. Rebecca Black aveva sempre sognato di cantare, ballare, recitare; sin da piccola, grazie ad una famiglia che la supportava nel suo sogno, partecipava a ogni audizione che poteva, perché era ciò che la faceva stare bene, la sua casa, dice lei. Un giorno seppe che una sua compagna di scuola aveva fatto un video musicale e le chiese “ehy, come hai fatto?” e lei le rispose dandole info su questa agenzia che di fatto produceva canzoni per teenager. Andò quindi da sua madre, convintissima di ricevere un no (qui la Black dice “mia madre è una madre single, quindi i soldi non ci piovevano dal cielo”), ma disse sì. Scrissero la mail alla compagnia.
Rebecca Black aveva 13 anni, quando tutto questo successe. Dopo aver scartato la prima canzone proposta dall’agenzia (si chiamava Super Woman), accettò quella che si chiamava Friday, perché era più adatta alla sua età e andava benissimo come prima esperienza in questo mondo, convintissima che questo video potesse rimanere semplicemente qualcosa che avrebbe visto sua nonna e, cosa più importante, solo un’attività divertente ma formativa da fare e aggiungere al suo curriculum da wannabe popstar/show-qualcosa (perché all’epoca non sapeva cosa volesse fare, appunto).
“I just want the experience”
Il video di Friday viene girato a casa del padre, e solo in quell’occasione lei riesce a sentire la canzone da lei registrata per la prima volta; ci racconta che non è la cosa glamurosa (come direbbe Katuxa) che ci aspettiamo: compra gli abiti da una catena low-cost il giorno prima, chiama un paio di amichetti come comparse, è nervosa, non sa cosa fare, come muoversi davanti ad una videocamera (nell’intervista menziona una parte in cui si vede che non sa proprio cosa fare in una scena), ma si diverte, passa una bella giornata. Dopo un mese, l’agenzia lo pubblica online, sul suo canale YouTube (il 10 febbraio, appunto). Dopo un altro mese, l’inspiegabile (ma non troppo) meccanismo della viralità colpisce Friday. Le views aumentano, i commenti anche.
Sappiamo benissimo come andò: Friday divenne uno dei primi meme, un tormentone che citavamo ogni venerdì, la battuta che seguiva dopo averla ascoltata, solitamente qualcosa tipo ugh, meglio Gigi D’Alessio!
Mentre noi ridevamo, Rebecca Black a 13 anni non capiva cosa stesse succedendo – immaginate avere una cosa che considerate il vostro posto sicuro, così era la musica per lei, diventare il vostro peggiore incubo, un’arma usata contro di voi. Lei di certo non pensava che quello sarebbe stato il suo debutto nel mondo che voleva sbirciare per farne parte un giorno, ma così è stato.
Volevo raccontarvi tutta questa storia non solo perché questa ragazzina a 13 anni si è ritrovata sommersa di commenti di merda su di lei, sulla “sua” musica, sul video, poiché a questo, purtroppo, ci siamo abituati molto velocemente nel corso degli anni.
Questa intervista mi ha fatto riflettere su due cose: il nostalgia trend e il neo risorgimento dei video brutti fatti per ridere di sé con gli altri, che non avendo un nome figo chiamerò con l’acronimo NRDVBPRDSCGA nella speranza di venire citata un giorno tra le fonti di una ricerca antropologica quando qualcuno si metterà di buona lena a mettere giù tutte le fenomenologie del web.
Dieci anni fa, Friday era la cosa peggiore dell’universo. Rebecca Black era satana, ommeeeoddeoo le mie orecchie sanguinano, cambia ‘sta roba. Avevamo deumanizzato questa ragazza, riducendola ad archetipo-di-ragazza-teenager nel processo di cannibalizzazione del contenuto. Non sapevamo la sua storia e non ci sarebbe interessata in quel momento, perché abbiamo imparato col tempo che la risposta aggressiva del sistema immunitario di fronte alla viralità è la derisione. Ora, apro una parentesi perché non so dove schiaffare questo pezzo: la storia di questa ragazza ci mostra come un episodio del genere, però, le abbia portato non solo negatività, ma anche datole la spinta per esperienze che altrimenti, col solo talento, boh, chissà se sarebbe riuscita a fare – e lo dice anche, nelle sue interviste postume. Per ricostruire la sua immagine, qualche anno dopo fa uscire Saturday, e questo gesto io lo vedo potentissimo; si prende in giro ed esorcizza tutto il male ricevuto non solo attraverso una canzone migliore, ma anche con uno storytelling: alla fine del video si vede infatti l’arresto di un tipo che entra in casa totalmente a caso, recitando un paio di strofe da Friday. Questo tipo è Patrice Wilson, il produttore della canzone.
Se ci pensiamo, Rebecca Black ha proprio messo in pratica il detto “quando la vita ti dà i limoni, facci una limonata” e scoprire la sua storia e il suo riappropriarsi della sua immagine, della sua musica e del suo brand è stato bellissimo. Tutto questo è stato possibile anche grazie all’abilità che hanno avuto alcuni personaggi dal simile destino, di fare propria un’esperienza traumatica come quella di essere sotto i riflettori in qualità di zimbello di cosa X e trasformarla nel trampolino di lancio per i loro progetti.
In aggiunta all’attitudine della Black, Friday ha avuto un boost in più: è un prodotto che ha beneficiato del fattore nostalgia. Lei stessa dice che continua a cantarla durante le sue performance, perché tutti conoscono il testo anche se non lo ammetteranno mai, e perché sostanzialmente, la gente si diverte. Così assistiamo al tempo che mitiga i ricordi, che trasforma le emozioni; la rabbia verso l’ascolto continuativo di una canzone di merda diventa compassione del periodo attraverso la lente del sé, mentre si guarda indietro al 2010 e magari Friday era l’unica cosa negativa nella nostra vita perfetta. O semplicemente, forse non era così male, perché ci ha regalato il modo di dire perfetto da sfoggiare ogni venerdì, il meme, una storia da raccontare.
L’altra cosa sulla quale ho riflettuto dopo aver osservato abbastanza giovani esemplari di esseri umani su TikTok, è la sempre più diffusa usanza di pubblicare dei video ridicolissimi di sé e trovare conforto nell’essere accomunati dal disagio dell’essere persone viventi su questo strambo pianeta con gli altri, nei commenti. Se per anni abbiamo fatto finta di essere perfetti a suon di stati studiati ad hoc, fotografie perfette – e continuiamo a farlo con grande orgoglio, perché c’è da mantenere il primato dell’Instagram social più tossico per la salute mentale – c’è una nicchia lì fuori secondo la quale, giustamente, l’algoritmo mi ha detto di appartenere, alla quale non interessa deridere ergo cyber-bullizzare l’altra persona, ma ridere insieme di quelle cose che ci rendono imperfetti e bellissimi. Figure di merda galattiche, re-interpretazioni di scene imbarazzanti successe a lavoro o con le persone del cuore, video appositamente realizzati male per comunicare esattamente lo stato d’animo di imbarazzo e schifo che a volte proviamo semplicemente perché vivendo, capita di fare cazzate. E condividere questa umanità creando le nostre storie, utilizzando tutti gli strumenti narrativi che ci siamo inventati grazie alle varie piattaforme che utilizziamo per esporci agli altri, è l’approccio che diventa sempre più vicino ad un uso più consapevole, meno artefatto e forse un po’ più sano dei social network.
Fruite del trash, ringraziate i creators folli o disagevoli. Ma non prendeteli in giro, non bullizzateli: perché deridere se si può, finalmente, ridere insieme, anche a distanza di km e anni?
Fonti: l’intervista di BuzzFeed | l’intervista a VICE
Anche oggi ho finito le mie riflessioni. Questo è il footer della newsletter, il posto in cui di solito l’autor@ della newsletter ti chiede di seguirlo da qualche parte. Io non ve lo chiedo, perché ho dei grossi problemi d’orientamento e significherebbe perderci. Sì, lo so, è una battuta vecchia, ma fatemela usare, okkey? Potete dimostrare il vostro supporto a questa newsletter in tanti modi, lo sapete come si fa, mica ve lo devo ripetere sempre, non sono mica *inserire vostro tutore legale* o una pubblicità ripetitiva. Mi piacerebbe però sapere cosa ne pensi sull’argomento, quindi sentiti libero di rispondere via mail, lasciare un commento o scrivermi ovunque tu voglia. Se hai letto fino a qua, però, fammelo sapere cliccando questo link.
Statemi bene, dai, ché fra poco… it’s Friday, Fridaaay.