Pensavate che questa newsletter fosse sparita? Avete pensato bene, tra l’altro, ha fatto prima Substack a cambiare tutta la UX che io a scrivere una nuova puntata. Ormai vi ho abituati al mio “se non sento di avere nulla di particolare da comunicare, non comunico”. Però. Però. Stavolta è diverso e ve lo spiego dopo la sssigla.
Ciao amicy. Questo è l’episodio speciale di anneddoti, la vostra newsletter prefe sulla vita digitale & la vita in generale che esce a genitale di cane. Cambierà modo, format e tutto perché ormai è vecchia e anche perché ho l’ascendente gemelli, quindi non posso fare la stessa cosa per troppo tempo. Ve ne parlerò nel footer, perché giustamente andate di fretta e volete leggere l’argomento, mica altro.
Sono sparita perché sono mesi che mi interesso sempre meno ai social. A crearci sopra contenuti, intendo, ma anche a leggere attivamente e partecipare alla loro vita. Abbiamo spesso trattato questo argomento, qui, e in generale è un discorso che affrontiamo tanto ma non quanto si dovrebbe. Cioè, io non dico debba essere al centro dei nostri dibattiti, ma è innegabile che la vita social ci influenzi così tanto che dovrebbe interessarci un po’ di più.
Forse io sono satura. Di contenuti sempre uguali. Di autocelebrazione. Di post chilometrici sull’opinione di tizio X su una cosa Y. Di contenuti da leggere, sostenere, condividere, likare. Forse invidio le stories dei miei amici con i loro amici. Forse vorrei essere una di quelle persone alle quali vengono bene le foto, fa dei post et voilà, didascalia dove racconta tutto e Chiara Ferragni le scrive sotto un cuore per farle sapere che le sta vicina.
Forse semplicemente io dalla pandemia non ci sono mai uscita, nonostante un cambio di vita, di posto, un trasloco, una nuova città. O forse tutto questo, forse non trovo più la bellezza nel condividere il mio pensiero con la rete. Mi limito a esistere, come archivio di parole, come cadavere digitale, come lurker delle prime 4 storie che mi capitano, interagendo sempre meno e rispondendo una volta ogni morte di papa ai messaggi.
Non siete voi, sono io, mi verrebbe da dire.
Ma se fosse anche che non c’è uno spazio, per le persone come me in questo stato?
Ci ripetiamo da anni che social media non equivale a vita reale. Che ciò che mostriamo è falso, costruito ad arte.
Io non credo più a questo concetto. Due anni fa, proprio su anneddoti, scrivevo, parlando delle storie su Instagram:
Quindi il concetto diventa: se il momento è bello e se le storie non aggiungono “valore” né al mio profilo, né alla tecnologia implementata, perché non viverlo, riprenderlo o fotografarlo ma postare qualcosa in differita, quando davvero può diventare qualcosa di costruttivo per il nostro io social?
È giusto cercare di rendere più reale la comunicazione online, ed è sempre apprezzato quando le aziende responsabili della nostra “vita virtuale” fanno tentativi per mescolare le attività che svolgiamo sulla piattaforma offline. Anche se per loro si tratta in parte di puro business. Il punto è che le storie per la maggior parte dell’utenza non funzionano, al di là dei dati raccolti. Perché è un altro livello da costruire, perché è ermetica, perché diventa comunicazione quasi per sé stessi o per determinati gruppi ristretti, come fosse appunto un linguaggio in codice. Una canzone significa “contattami”, l’ora sulla foto del tramonto significa “contattami” (questo l’ho imparato su Tik Tok, i giovani dicono che questi sono messaggi subliminali per crush).
E quindi niente, a nessuno interessano le nostre stories, ma per fortuna durano 24 ore e qualche secondo e poi ce ne saremo tutti dimenticati.
Estratto da: Le nostre storie(s)
Non so se penso ancora questa cosa. Cioè forse in parte? Adesso la vedo un po’ così: penso che quella storia con l’aperitivo, dove costringiamo le nostre amiche a non bere e mangiare prima di scattare una foto, non sia più “rovinare il momento”, ma cercare di racchiuderlo per condividerlo con gli altri e con noi stessi quando riguarderemo tutto a casa, controllando chi ci ha visualizzato e pensando a cosa potrebbe aver pensato quella persona con quella view. Quel post strappalacrime con la nostra foto migliore anche se ci sentiamo da schifo, è perché vogliamo ricordarci che siamo altro oltre il nostro stato d’animo corrente. Un post per parlare con noi, per dirci che possiamo farcela.
In un certo senso, sembra che ci siamo riappropriati dell’iniziale significato di social network: voglio condividere me con voi.
Ma appunto: l’abbiamo ritrovato o forse semplicemente ero satura e non riuscivo a vedere le cose chiaramente? Siamo in una nuova fase o, forse, siamo in overload di dati e quindi o sentiamo il bisogno di detox o quello di dare un senso anche allo sfondo nero con su scritto manchi in piccolo piccolissimo sotto l’embed della canzone di Spotify che sappiamo solo noi che ci sta dietro?
Io, nel dubbio, sono abbastanza divisa e probabilmente, come tutto nella vita, la verità è fatta di più cose. Non riesco più a trovare divertente o appagante l’interazione social. È forse perché non faccio parte di una cerchia, di una community che mi supporta? Probabilmente. Forse la mancanza di gratificazione, di notifiche, pesa al mio ego. Avrei bisogno di uscire fuori, vivere la vita e portarla con me sullo schermo? Anche questo è vero: alla lunga, commentare i commenti delle altre persone sulla notizia del giorno diventa un esercizio di stile più che un vero dibattito. Monologhi che si rincorrono per dimostrare che si ha ragione. Ma su Internet, specialmente in questi anni, abbiamo avuto la prova tangibile che tutti riescono a trovare le fonti per aver ragione. Anche i terrapiattisti e i novax.
Oh, io non ho voglia di cliccare quelle icone. Significa che non ho voglia di essere social? Ho paura dell’esposizione? Credo che a nessuno interessi ciò che ho da dire? Non trovo nulla di interessante da guardare o leggere? Com’è possibile?
Due anni fa dicevo appunto questo: a nessuno interessano le nostre stories. E questa è una cosa che penso ancora. L’atto di condividerci è qualcosa che facciamo per noi. Comunichiamo ad una platea perché ne sentiamo il bisogno. Ci siamo perché esiste la FOMO. Ma esiste un posto in cui semplicemente esserci in silenzio?
Se su internet non siamo parole o immagini, cosa siamo?
Io ho trovato il mio rifugio digitale nella decentralizzazione. Discord è l’app che uso più attivamente, TikTok quella in cui sono consumatrice di contenuti. Su Discord ci si mette d’accordo sul giocare insieme, si chiacchiera della quotidianità, non c’è la corsa alla notizia, all’essere influente, all’essere notevole per dover contare qualcosa. Forse perché siamo state brave, io e una mia amica, a costruire una community basata sul cercare di coinvolgere tutti. Forse sto scrivendo troppi forse, basta. TikTok invece a volte sa dare le vibes degli estranei che ti raccontano un aneddoto della loro vita come fossero al bar, e questa cosa mi piace molto.
Tutto il resto, non è più il mio posto. Continuerò a lottare per esserci, perché il mio lavoro è collegato strettamente a quelle piattaforme mainstream. O forse mi trasferirò definitivamente in un posto che non c’è ancora. Troverò la mia cerchia su Instagram. Chiara Ferragni commenterà con un cuore sotto il post che accompagnerà questa puntata e mi dimenticherò di questa puntata ma voi ve la ricorderete e me la rinfaccerete. Così come da tradizione del webbe.
E voi? Come state sui social?
Avete appena letto anneddoti. Dal prossimo giro cambio format. Come? Non lo so ancora. Quando? Non lo so ancora. Davvero? Sì. Perché? Perché nella vita è giusto cambiare. A voi interessa? No, non sono mica la Ferragni, appunto. Ve lo dovevo però dire per creare quella cosa chiamata hype.
Ah, vorrei anche fare un podcast dove vi racconto alcune “favole dell’internet”, sto ancora cercando il nome e la capacità di fare qualcosa come vorrei. Vi piace l’idea? Fatemelo sapere su Insta. Ahaha, no, stavo scherzando, potete pure rispy a questa email. Statemi bene <3.
Incredibile come ogni volta che leggo qualcosa di tuo dietro a riflessioni pensierose mi scatti sempre un sorriso. Tralasciando la tua fantastica ironia non avevo mai visto come Discord fosse una piattaforma dove non si mostra di prassi un "io costruito", come invece ci inducono a fare altri social come Instagram o Tiktok.
Rispondendo alla tua domanda invece: per quanto mi riguarda nel mio periodo adolescenziale pubblicavo spesso storie o contenuti. Dopo averli pubblicati mi lasciavano un vuoto che colmavo con l'autogratificazione di like, messaggi e commenti. Una droga dalla quale mi sono allontanata anni fa. Ma che ho sostituito con una diversa. Discord. Mi rendo conto che la mia relazione con i social si può racchiudere con due parole: dipendenza e autodistruzione
Ho disattivato Facebook, sto in detox da Instagram a forza di seguire quasi solo profili su dipinti tardoromantici, ho cancellato circa 800 “segui” e “i pokemon sono meglio delle persone”