Le cose che ci fanno fare le cose fatte dagli altri
Parlo di UX, Twitch e della nostra igiene digitale.
Ho Jack Stauber nelle cuffie e sono sulla scrivania, un dettaglio non troppo scontato considerando che ho sempre scritto sul divano o a letto o sui treni e quasi mai su un tavolo ma vabbè, questa info non serve a nulla, era per farvi entrare nel racconto. Ho due telecamere puntate, un microfono con un mixer audio e 5 luci diverse direzionate verso me. Oggi è il giorno di riposo della mia coinquilina e tutto è spento, così come la sua trasmissione, quindi no, non devo fare nessun annuncio alla nazione con questa attrezzatura. Da qualche mese vivo con lei, che ha deciso di voler condividere la sua quotidianità con me mentre cerco lavoro, casa, libri, auto, viaggi, fogli di giornale in quel di Roma.
Lei fa la streamer su Twitch e questo setting così elaborato quanto normale per chiunque faccia il suo mestiere rappresenta una delle mie più grandi paure. Cosa significa avere una telecamera puntata addosso mentre centinaia di telespettatori ti guardano e possono interagire con te?
Ciao, sono Anna, la tua sconosciuta preferita dell’internet e stai leggendo anneddoti, la newsletter che esce quando se la sente e parla di vita (la mia e quella di chi incontro però siccome questa newsletter è nata poco prima della pandemia hihihi), folclore digitale e cose lgbtq+. Oggi questa newsletter compie due anni, per festeggiare, la consiglieresti a una persona alla quale potrebbe piacere e mi aiuti a fare i big money? Grazie, metto il bottoncino qui sotto. Puoi seguirmi su Instagram, Telegram e supportare la mia scrittura con dei soldi, come il buon capitalismo vuole, a questo indirizzo.
Quello che sto per dirvi è una delle cose che non si dovrebbe scrivere in pubblico a meno che non si stia facendo un post molto emotional su LinkedIn, sì lo so, scusate, sono molto incazzata con l’uso che facciamo di LinkedIn e si capisce anche se non faccio tremila battute a riguardo la smetto. Vabbè, dicevo, è una di quelle cose che ti dicono di nascondere perché altrimenti sembri una sfigata-insicura-del-cazzo e tu invece puoi essere vulnerabile, certo, però non troppo, sennò la gente ti vede come ti vedrai tu ed è un casino perché attiri solo ciò che pensi di meritare.
Tutte ‘ste cose ovviamente te le dicono le amiche e gli amici che sono chiamati a doversi pronunciare sulla vicenda e non ti possono dire “sì tieni ecco un cappio, guarda, l’ho già stretto io basta che ti appendi n’attimo, 2 minutini e tac, ci siamo”, no, loro provano a essere motivazionali e giustamente ti dicono che non dovresti pensare ciò che pensi su ciò che sei. Però ecco cosa succede da 20 anni a questa parte: mi guardo allo specchio e penso le peggio cose di me. Questo lo dico perché ha un senso nel racconto, non perché vi dobbiate sentire in obbligo ad aprire la finestra di chat e provare a convincermi del contrario oppure consigliarmi un libro sulle vibrazioni dell’universo. La verità è questa: viviamo in una società grassofobica, che discrimina le persone grasse e io sono donna, gay, queer, grassa perché non mi piaceva fare parte di una sola nicchia discriminata. Come direbbe la mia amica Elisa, quel giorno c’era il prendi 3 paghi 2 e ho approfittato dell’offerta.
La verità è che per sopravvivere a questa realtà in cui ti urlano cicciona per strada, che il complimento è “sei bella per essere grassa” e i mille “secondo me dovresti fare così…” continuando la frase con altrettanti modi in cui dovresti migliorare, ti devi inventare qualcosa. All’epoca, la me del passato ha deciso che man mano che metteva su i chili doveva aumentare la simpatia, di modo tale che almeno poteva risultare sopportabile dal Grande Occhio Altrui, che poi alimentava l’occhio interno, insomma un casino, non è questo il punto però di tutto ‘sto discorso.
Il punto è che io ho rifiutato molte situazioni in cui avrei dovuto parlare in pubblico, sarei dovuta apparire davanti alla telecamera, sui palchi, alle videochiamate, ai colloqui, ecc., perché avrei dovuto avere un obbiettivo addosso, cioè per me l’equivalente di avere una pistola puntata contro: vorrei scomparire, non essere lì, d’istinto magari mi coprirei il volto, come se questo gesto potesse proteggermi da un proiettile.
Gli sguardi degli altri hanno rappresentato per tanti anni, per me, dei proiettili che dovevo scansare a mò di Neo di Matrix.
Poi vabbè premiamo un attimo il tasto forward sennò vi annoio, stiamo saltando il capitolo terapia, incontri fortuiti, io che capisco che non posso vivere così e la situazione più o meno si stabilizza. Mi faccio schifo in silenzio, evito di farmi i selfie e non mi metto davanti a una telecamera. Mi sembra un buon compromesso, nel frattempo che continuo a lavorare su me stessa, internamente ed esternamente.
In fondo, per quale motivo dovrei stare davanti a una camera?
Mica faccio la streamer su Twitch.
È settembre del 2021, vengo a vivere a casa della mia attuale coinquilina, che mi chiede di andare vicino a lei a fare un po’ di chiacchiera con i suoi follower dopo un paio d’ore di trasmissione. Mi avvicino, mi guardo e penso “oddio, chissà quando arriverà quel commento terribile che leggerò e mi farà sentire male”. Ma sono a casa, sono al sicuro. Inizio a fare qualche battuta. Ci divertiamo tanto e i commenti sono simpatici. Qualche giorno dopo la situazione si ripete. A un certo punto divento un meme, poi uno sticker su Telegram. A volte sento la mia coinquilina dire “no, stasera Anna non c’è” perché qualcuno chiede di me in chat. Incredibile, penso.
Sono passati due mesi da quei primi momenti e Twitch mi ha vista in pigiama, struccata, fare challenge for the lol, suonare il kazoo e farmi dare della signora da Bobby Solo. Sono dieci minuti in cui appaio in quelle live a fine trasmissione, dieci minuti in cui ho vissuto in prima persona due cose in particolare che hanno fatto partire tutta ‘sta riflessione, appunto.
La prima è una cosa assolutamente personale e riscontrabile da ognuno di noi su ogni social, sia in piccolo che in grande – in base alla dimensione della vostra cerchia di contatti - ed è la botta di dopamina che ci arriva ogni volta che postiamo qualcosa e partono i like, i cuori e le interazioni varie. Su Twitch ci sono molti bottoni da premere e tante cose da leggere: c’è chi dona dei soldi per vederti apparire, chi per farti fare determinate cose, chi ti scrive commenti super belli. Sono conscia che ogni canale Twitch è a sé e molto fa la moderazione, in questo pezzo parlo solo della mia esperienza diretta con il canale di Francesca (la mia coinquilina, appunto), in arte Bugalalla, che negli anni ha saputo costruire e mantenere una community rispettosa anche se si parla di killer, omicidi e morti male.
La seconda cosa riscontrata ha a che fare con la percezione della piattaforma. Vi ricordate quando quello streamer entrò nel negozio per fare una live (irl, in gergo twitchano) e gli abbiamo urlato contro perché doveva prendersi la responsabilità della sua audience?
Ecco, se da una parte questo assunto rimane vero, ossia che grandi numeri di follower rappresentano un’enorme responsabilità comunicativa, il design delle piattaforme genera un impatto fondamentale non solo sul nostro utilizzo, ma anche sulla nostra percezione. Molti streamer iniziano a condurre trasmissioni alla ricerca del proprio spazio nel virtuale, come se creassero la propria casa/camera e ne aprissero la porta agli sconosciuti che, vedendoli, possono decidere di rimanere con loro o meno a farsi compagnia vicendevolmente.
Ho letto un sacco di commenti che scrivevano alla mia coinquilina “mi fai compagnia mentre disegno/faccio cose” e ho visto persone iniziare la carriera di streamer non perché avessero di fatto qualcosa da divulgare/dire/fare, ma per trovare in quell’angolo di web un proprio posto in cui essere loro stesse. La combo piattaforma e casa, aiuta tantissimo. Tutti abbiamo bisogno di connessioni, di fare community e di esprimersi – Twitch è una televisione interattiva, una piattaforma in cui abbiamo l’opzione di poter essere co-protagonisti in un modo o nell’altro. Ed è allo stesso tempo un luogo in cui sei al centro del palco, lo show sei tu, la gente rimane a guardarti non tanto per i contenuti che porterai, ma per chi sei. Che è praticamente il concetto sul quale si basa l’economia dei milioni di Content Creator, che pur parlando dello stesso topic di migliaia di altri, col proprio stile riescono a conquistare ognuno la propria fetta di follower. Quando parlo di design di piattaforma intendo appunto questo, che sottolineo, è un parere molto personale dovuto alla mia poca esperienza dall’altra parte della barricata: mentre stavo a parlare con la mia coinquilina con la telecamera puntata e seguivo ciò che scrivevano i suoi follower in chat, il numero di telespettatori non aveva importanza. Erano più di 800, però.
Questo significa che una persona giovane, che si ritrova senza educazione digitale a mettersi su Twitch perché “fa figo” o vuole farne una carriera e si trova validata da centinaia di spettatori che lo seguono, non capisce quali siano le implicazioni di una comunicazione magari errata in qualche ora di live. Esempio stupido: prima di inviare una newsletter con Mailchimp, c’è un bottone che ti avvisa “sei DAVVERO sicur- di voler inviare a queste persone? EH? Guarda che lo faccio davvero”. Così come, se vuoi cancellare una lista, devi confermare l’azione immettendo la password. Sono scelte di UX che permettono all’utente di rendersi conto di ciò che sta facendo, o quantomeno di pensarci quel secondo in più. Responsabilizzano la persona che sta compiendo quell’azione.
Su Twitch, nel momento in cui sei davanti a una telecamera con centinaia di persone che ti scrivono cose che boostano l’autostima, il numero delle visualizzazioni, che è in alto, quasi scompare se hai una chat attiva, se i sound alert continuano ad arrivare, se le donazioni continuano a salire. Twitch basa la sua UX sulla gamification – e la live è un videogame capitalista che streamer e pubblico giocano insieme.
Il premio? Il denaro, o la compagnia che cura la solitudine di entrambe le parti.
Cosa volevo dirvi con la mia premessa? Che io ho un’autostima di merda e l’ultima cosa che avrei voluto fare è mettermi sotto cinque riflettori e una camera. Ma è successo e mi sono arrivati dei commenti bellissimi, che hanno agito positivamente sulla mia autostima. Sono tornata davanti alla telecamera, sempre meno timidamente, ricevendo sempre più commenti positivi e in certi momenti, presa dagli stimoli che dicevo sopra, ho dimenticato di essere su un mezzo di comunicazione con la possibilità di veicolare messaggi che avrebbero potuto avere un impatto su un’audience, perché mi sono sentita come se fossi al bar con l’amica che conosce tutti e questi tutti si avvicinavano per salutarla. Quel numero non lo vedi, perché l’UX di Twitch ha altre priorità. Se poi ci aggiungiamo anche la nostra scarsa igiene digitale, eccoci spiegati i fenomeni che vanno irl a disturbare i negozi con i soundalert. Se ci pensate, è l’equivalente odierno di suonare al campanello di qualcuno e scappare. Le intenzioni sono goliardiche.
Solo che oggi quel citofono può essere un negozio e le persone a suonare migliaia e le azioni digitali hanno un peso maggiore perché rimangono sui server e plasmano opinioni.
Vabbè, e quindi Anna che volevi dirci? Niente, volevo dirvi di fare caso a come sono costruite le cose: ci riflettevo mentre ricordavo dei pezzi che avevo letto sull’architettura ostile di Milano per ostacolare i cittadini al bivacco in certe zone – o a impedire ai senzatetto di occupare posti che potevano “danneggiare il decoro urbano” e lo stesso concetto è applicabile alle web app e social media che utilizziamo; ormai sappiamo (sappiamo?) che le notifiche push ci arrivano per ingaggiarci sempre di più, che se Instagram sposta il bottone dei reel è perché vuole che lo si utilizzi di più anche solo per sbaglio e se prestiamo attenzione benebene a tutto, possiamo vedere dei pattern. E non sono bellissimi, purtroppo. Lo so, che fine di merda ma se volevate le favole della buonanotte andavate a leggere Mark Zuckerberg che vi parla di Metaverso, mica me.
In questo periodo, due anni fa, creavo questa newsletter e mandavo la prima mail. Vi ringrazio tanto per tutte le vostre parole, le condivisioni, il supporto morale ed economico. Seguitemi su Instagram, Telegram e se volete, supportate questa newsletter donando del denaro o condividendola. Statemi bene, ci risentiamo la prossima volta. Intanto non accettate i cookie dagli sconosciuti, mi raccomando.