La vita scorre. Fuori e dentro.
Ciao carissimi!
So che la newsletter non esce da tre settimane. Il motivo è semplice: ho scritto tre bozze, ma non le ho inviate. Ho sentito troppo rumore, troppo caos. E semplicemente non mi sono sentita di aggiungere l’ennesima prospettiva personale ad un problema più grande di noi solo per soddisfare un bisogno di “esserci”.
Come avevo detto all’inizio, avrei scritto solo se sentivo ci fosse davvero qualcosa da dire e non per dare spazio alla mia tastiera e quindi eccomi qui, ciao.
Sono Anna, la vostra sconosciuta dell’internet preferita, e questo è Anneddoti #11.
Madò, che strano che è questo periodo. A parte che dalla solidarietà e volemose bene siamo passati a fare foto, spia e denunzie. Sindaci che inneggiano ai lanciafiamme, altri coi droni in giro per la città con la sua voce pre-registrata… boh.
E poi c’è ancora quella patina di incredulità. Cioè non puoi nemmeno iniziare una conversazione normalmente, perché se lo fai a te viene il dubbio che magari l’altro pensa che tu stia in un altro pianeta, quindi ti ritrovi a fare dei preamboli cringe, tipo “eh che situazione che stiamo vivendo” - “eh già” al quale segue un silenzio imbarazzante che poi uno dei due spezza per continuare a parlare come se nulla fosse. A me succede spesso perché sto molto al telefono con gente sconosciuta, che si vede arrivare la chiamata di questa tipa che non hanno mai visto e quindi boh, con gli sconosciuti si parla o non si parla della situazione? Voi come avete risolto? Fatemi sapere, ché queste premesse cringe mi generano ansia sociale.
Ah, e poi c’è la gente che ti chiama. Sempre. Col tono tipo di chi già pensava tu fossi morta. “Oh, Anna, mamma mia che spavento”, ma di cosa? Per assurdo avevo più probabilità di morire prima, uccisa dall’ennesimo karaoke della signora rumena sulla metro (ciao signora, miss you so much).
Vabbè, insomma, la premessa sul Coronavirus l’abbiamo fatta, come state voi?
Qui sotto vi parlerò di cose che riguardano questo periodo, per forza di cose, ma non voglio annoiarvi a morte dicendovi ciò che vi stanno ripetendo in ogni dove. Almeno spero.
Non abbiamo premuto il tasto Pausa
Ci siamo rotti il cazzo, vè?
Ora cominciamo a pensare seriamente ai problemi, ad essere insofferenti. Dopo la prima settimana di internet in cui le aziende sciabolavano i rubinetti delle cose gratis e abbiamo seguito le lezioni di chitarra di Alex Britti, letto tutti i fumetti di Bonelli, guardato documentari su Pornhub Premium e svuotato il catalogo di InfinityTV, adesso la vita ci chiede il conto.
Ma ‘sto mese, a cosa è servito nell’economia della nostra vita?
Lo abbiamo vissuto credendo di aver premuto il tasto pausa. Ci siamo crogiolati nell’idea che il mondo fuori lo fosse e che le nostre vite si fossero finalmente fermate per goderci la famigghia e le millemila ricette di GialloZafferano da fare e infornare.
Ci stiamo preoccupando troppo delle nostre voci e della nostra stasi, ma questo è anche un grande momento per ascoltarci. Nel senso di ascoltare noi stessi e quei pochi che, in mezzo a tutto quel rumore, abbiamo deciso di fare entrare nella nostra bolla da isolamento, perché la differenza la fa anche chi ti trovi accanto in questo momento, eh.
Perché in realtà non abbiamo messo in pausa un bel niente. Svegliarsi ogni giorno equivale a viverlo e anche se non si esce. Magari boh, era un pensiero scontato, ma sentivo l’esigenza di ripeterlo, a me e a voi, perché mi è capitato di pensare “beh, appena finisce tutto allora…”. Ma allora niente. Questi sono giorni straordinariamente difficili, completamente inaspettati, una situazione senza precedenti, ma – perlomeno per chi sta bene– sono giorni normali. Giorni in cui ci si alza dal letto e si saluta qualcuno, si lavora, si interagisce, certo in maniera diversa, si scoprono nuove cose che si possono fare con la tecnologia, ma non per questo sono giorni “più difficili di altri” o “di serie B”. Non voglio sminuire la cosa, è chiaro che l’isolamento ci crea più di qualche problemino a livello di umore, livello di stress e co., senza poi contare la paura per il virus, per le persone che amiamo. Però credo sia altrettanto sbagliato considerarci “in pausa dal mondo”. Stiamo vivendo.
In un video Francesca Vecchioni diceva che facciamo fatica anche a connetterci con i telefilm, perché ci mostrano una realtà che non è più la nostra. E poi che ansia tutto, no? E quello che ti fa le riflessioni, e tua madre che ti fa la conta dei morti, e quelli che il governo fa schifo, e quegli altri che fanno i poliziotti, e la tristezza di non poterci abbracciare e la paura di cosa ci riserverà il futuro.
Ma fuori e dentro di noi scorre ancora la vita. Noi stiamo vivendo. Non ci stiamo accontentando: questa è proprio la nostra quotidianità. Alle prese con il corso di pilates o il webinar, il fumetto che ci farà riflettere o in lotta con i nostri demoni. Ascoltando nuova musica o rispolverando nuovi legami o creandone di nuovi… continuiamo ad andare a fare la spesa. Ad incontrarne poche, di persone dal vivo, ma potenzialmente tantissime sul web. Le vediamo, le conosciamo. Sorridiamo. Ci emozioniamo. Respiriamo. E questo non è vivere?
Perciò ho deciso di raccontare e raccogliere dei frammenti, degli stralci di quotidianità, rubati dalle finestre altrui o dalla mia, di quotidianità. Se volete raccontarne qualcuno anche voi, rispondetemi alla newsletter come al solito.
A me è servito leggere che attorno a me, oltre alle torte infornate e alla gente che si annoia, ci sono ancora storie da ascoltare. Piccole cose che davamo per scontate che adesso pesano un po’ di più in questa bilancia. Proprio perché durante questo mega incantesimo in cui ci fa comodo “ingannarci” dicendoci che siamo in pausa, chi si scontra con la nostra esistenza regalandoci momenti vivi ci sembra preziosissimo.
Mi è sembrato di (non) sentire un rumore, rumoore
Io non mi sono mai sentita a casa in nessun luogo e chi mi conosce sa che per un lungo periodo della mia vita il mio armadio era una valigia. Era sempre lì, pronta ed ero sempre lì, pronta al prossimo posto da abitare per sentirmi un po’ più comoda. Sono nata e cresciuta a Sant’Agata di Militello (provincia di Messina), un paese di pescatori senza nemmeno un semaforo. Una sola arteria, la Via Medici. Due posti dove passeggiare: la piazza d’inverno, il lungomare d’estate. Due locali dove andare: il Karibe d’estate e… d’inverno cambia sempre gestione quindi non so come si chiami adesso.
Facebook mi ricorda che sei anni fa, invece, Koenigsfeld mi ha ospitata per un paio di anni. È un paesino immerso nella foresta nera. Le case con i tetti a punta, i colori del cielo diluiti. Quando respiravi la sua aria, era come se ti entrasse il ghiaccio dentro le narici. Il silenzio perenne, nemmeno una macchina, solo una via. Vivevo avvolta dal silenzio, scandito solo dalla musica, dal suono della natura e dal brusio impercettibile di una vita al rallentatore.
Pace? No. I miei pensieri sono sempre stati impostati al massimo volume. Avevo il caos dentro e la contrapposizione alla troppa quiete mi faceva sentire il doppio. Mi faceva sentire di essere al concerto sbagliato. Avevo bisogno di percepire il rimbombo dei bassi nella mia cassa toracica, di essere circondata, di trovare la mia strada assieme a milioni di altre persone e non come microbi al microscopio.
Così arrivò Milano, o meglio andai io da lei.
Milano è rumore perenne, boati, voci e lingue diverse. È la gente ammassata dentro la metro, sono conversazioni rubate su business, startup, server, advertising, moda. Adesso quando vado a fare la spesa sento un silenzio come se fossi ancora lì, in mezzo alla foresta nera. O davanti al mare.
Ma c’è solo l’asfalto e gente che in religioso silenzio rispetta una fila per il supermercato, che ha la musica fortissima, quasi come a voler contrastare l’assenza di voci che urlano, parlano, fanno rumore semplicemente esistendo, insomma.
Ho chiesto al commesso dove fosse il sale. Lui mi sorride, si sposta la mascherina, mi risponde a debita distanza dicendomi che era proprio lì, in basso, accanto a me. Mi dice che i prodotti più cercati vengono “nascosti”, così come il lievito in questi giorni – aggiunge, scherzando, per fare un po’ di conversazione, che se diventasse spacciatore di lievito sarebbe già un sacco ricco. Ridiamo, poi si fa serio. Mentre sistema le scatolette di tonno, riprende la conversazione dicendomi che è come se la gente avesse riscoperto i vecchi valori di una volta, lo stare in famiglia, cucinare tutto e non comprare ottomiliardi di monoporzioni per tutto. È come se fosse un segnale dalla Terra, un avvertimento.
Non mi sono sentita di contraddirlo, perché alla fine ognuno ha bisogno di raccontarsi la propria versione della storia per vivere meglio questi giorni. Una spiegazione a delle cose che ci fanno soffrire nell’oggi, anche se la risposta alla domanda che ci facciamo oggi ci arriverà un domani in cui probabilmente non ci fregherà più nulla. Ah, l’ironia della vita.
Esco dal supermercato. Ero al telefono con mia madre quando ho guardato il palazzo in cui abito. Guardavo le finestre, tutte uguali, con dentro situazioni tutte diverse. Chissà la gente come sta. Se si affaccia mai sull’asfalto. Poi improvvisamente la mia attenzione è stata catturata da una in particolare, che aveva dei pupazzi in fila che guardavano fuori. Ho riso molto, pensando a cosa pensava la bambina o il bambino che li aveva posizionati così. Ho riso molto, pensando a quale mondo vedevano fuori quegli amici morbidi e inanimati. Forse è tutto un loro complotto e stanno ammirando soddisfatti l’opera di distruzione del caos cittadino. Vorrei tornare indietro e dirlo al commesso.
Uvetta
di Isabella Borrelli (Roma).
Esco per fare la spesa e vado al panettiere. Si tratta a onor del vero di un piccolo alimentari e panettiere. Chi mi conosce nella mia quotidianità sa che io dal panettiere non vado mai, perché i prodotti da forno sono qualcosa che mi concedo solo quando vado a cena fuori, o per una pizza da asporto. Ma le uscite serali non ci sono più e così eccomi in fila al panettiere.
La fila è ordinata. Ci sono quattro persone davanti a me, ognuna è sola. Siamo in silenzio, quando una signore esce dal panettiere ed esclama “Nemmeno qui c’è l’uvetta!”
É una frase a cui do poco rilievo, nonostante l’evidente angoscia della donna. Ma a seguirla nello sgomento sono altre su persone in fila, che subito si agitano e chiedono in quali altri posti intorno abbia già verificato l’assenza dell’uvetta. Sono di religione ebraica, e l’uvetta è al centro di uno dei piatti de devono preparare per Pensach.
Ed allora che l’altra donna presente si gira verso di loro e fa: A SIGNORA MIA, NON ME NE PARLI CHE IL LIEVITO NON SI TROVA DA NESSUNA PARTE E IL CASATIELLO PER PASQUA NON SO PROPRIO COME FARLO!
Le altre signore annuiscono e si offrono di portare alla donna del lievito perché loro per Pesach non devono assolutamente usarlo e andrebbe comunque sprecato. È stato un piccolo irrilevante evento del mio circondario, ma a me ha reso felice. E l’uvetta l’abbiamo trovata!
Risotto
Oggi non ti ho pensata. No, non è vero, ti ho pensata, sì. Mi è venuto in mente un ricordo sommerso, il pensiero di quella volta che mi dicesti che avresti fatto il risotto per me, anche se le tue doti culinarie –dici– non siano eccelse. Ho sorriso mentre tiravo fuori la scatola dalla credenza, mentre pensavo che il mio ingrediente principe sarebbero stati i funghi. Per forza di cose, la mente è andata a tutti quei porcini che abbiamo mangiato.
Per forza di cose, prendendo la padella, mi sono ricordata che il risotto è stato il primo piatto che ho imparato a cucinare ai tempi in cui ero una studentessa universitaria e vivevo con delle coinquiline che non sapevano nemmeno bollire l’acqua (e adesso invece si sfidano a colpi di pancake sul gruppo degli amici). All’epoca, seguii il procedimento di un video con tipo 7 visualizzazioni su una versione neonata di YouTube. Il risotto al curry divenne l’istituzione di Casa Charlie (ossia la nostra dimora universitaria, chiamata così poiché il nostro padrone di casa comunicava con noi solamente via telefono e noi eravamo tre).
I ricordi sono belli, perché seppur scanditi da tempi diversi, le sensazioni che sprigionano si mischiano come i sapori. Mentre versavo il brodo sul riso che scoppiettava sulla padella, la mia mente saltava. Sono stati salti indietro, passato remoto e passato semplice, qualcosa di solo immaginato e qualcosa di reale, intenzioni mai compiute e storie che ancora oggi si raccontano, perché la condivisione di storie vissute insieme è ciò che rende i legami invincibili.
Cantavo e mescolavo, pensavo a te, vorrei ritornare a condividerci la vita. Cantavo ancora e pensavo a quante persone rimangono legate alla mia giornata anche se non c’è una comunicazione fitta. Come le persone che hanno convissuto con me, quelle di cui ricordo le risate insieme, le notti a condividerci i dubbi sul futuro, le serate a passeggiare. Penso ancora a te, ai semafori e i sussurri, alle stronzate che ci dicevamo, ai discorsi seri. Ho cucinato un risotto, ho mangiato tante emozioni.
Il Ratto delle Farine
di Flavia Razzano (Ischia).
Cose che ho scritto in questo periodo
La solita lista dei soliti link che non cliccate mai perché di solito arrivate stremati a questo punto
Quali sono gli errori da evitare quando si comunica lo stato di emergenza ad un paese | WIRED
Tra pandemia e parole | Treccani
That discomfort you are feeling is grief | Harvard Business Review
Riflessione illuminata su cosa è successo con la Murgia e Battiato
Anche questa puntata è finita. Vi ringrazio per aver letto fino a qui e grazie per i vostri messaggi sempre premurosi, sempre belli. Fatemi sapere se avete storie da raccontare dalla vostra quotidianità da condividere in questo safe space.
Noi ci risentiamo spero presto. Nel frattempo, se volete continuare a non fare nulla guardando soap opera spagnole realizzando di aver dimenticato lo spagnolo al 70% (prof., lo so che mi legge, mi perdoni per questo terribile coming out) e comunque continuare a guardarle inventando il resto che non capite mentre siete a letto ancora svegli fino a tardi, fatelo, senza sentirvi in colpa se non sapete fare il pane.
O almeno mi ripeto questo per non sentirmi in difetto con il mio, di forno, che al massimo avrà visto due sofficini.