Ciao persona che sta fissando lo schermo, sono Anna, la tua sconosciuta dell’internet preferita e stai leggendo Anneddoti, la newsletter che ti arriva nella tua casella di posta a sorpresa, un po’ come le disgrazie di questo 2020. Parliamo di web, di trends, di lgbtq+ e di cose varie ed eventuali.
Come state? Io sto vivendo una fase molto zen, dopo tanti mesi difficili. Sono permeata dall’aura dello sticazzi e affronto ogni giorno con la voglia di vivere di Sylvia Plath, la drammaticità de La Foule di Edith Piaf e la cazzimma di Antonio Zequila nella scena in cui Pappalardo gli nomina la madre. Voi che dite?
In questa newsletter non vi parlerò del Pride, perché sto costruendo un’edizione speciale e vorrei scriverla bene e possibilmente senza strafalcioni. Vi parlerò, però, di ciò che mi frulla in mente da una settimana circa. Il silenzio.
Sono successe un botto di robe nel mondo, in queste settimane. Nemmeno ve le scrivo, non ve le ripeto, perché credo che la ridondanza di informazioni faccia pure peggio. Le aziende si son ritrovate un giugno strano, tipo ve li immaginate i reparti marketing dei grandi brand in questo momento? Ok, raga, abbiamo finito i meme sulla pandemia, ora dobbiamo capire se sposare una causa o un’altra. E quindi ecco i social un po’ neri, un po’ arcobaleno. Così. E come di consueto quando si presenta un’overload di informazioni perché succedono troppe cose tutte insieme nel mondo, l’essere umano social invoca l’assistenza di uno strumento amico.
Silenzio
Come si rappresenta il silenzio sui social? Molti hanno trovato vari escamotage. Io da adolescente, pensavo che un buon modo per comunicare la mancanza di parole fosse utilizzare i puntini sospensivi. In questi giorni di lotta civile contro il razzismo, moltissimi hanno sentito il bisogno di cambiare la propria pic del profilo con un’immagine completamente nera. Senza aggiungere nessuna parola. Abbiamo fatto lo stesso quando Facebook ci rese disponibile il filtro del Pride, poi quello della bandiera francese. Piccoli gesti silenziosi – che però non rappresentano il silenzio stesso.
È una presa di posizione, una moda: qualsiasi motivazione sia, è figlia del pensiero di volerci essere, di essere testimoni, di entrare in empatia o semplicemente di fare ciò che gli altri fanno ritenendo sia giusto così. Ogni motivo è sacrosanto e personale. Ma su cosa ci fa riflettere, questa cosa?
Personalmente, mi sono posta alcune domande.
Silenzio significa assenza?
Mi sono spesso chiesta ciò e ho risposto a me stessa altrettanto spesso, sì. Cerco di riempire vuoti di conversazione, cerco di esserci nella vita delle persone che penso potrebbero dimenticarmi se non “rispetto un palinsesto”, cerco di scrivere qualcosa entro la settimana perché sennò “che hai la newsletter a fare”. Questi sono pensieri che mi balenano in testa. Poi penso però al sollievo che provo quando sono con le persone giuste, seduta su una panchina, ad ascoltare il mondo esterno che vive, mentre non si riempie quel tempo di parole. Penso che non ho sempre qualcosa da dire – a volte proprio perché non ho formulato un pensiero, altre volte perché sarebbe ridondante.
Penso anche però che essere assenti da un dibattito importante, testimoni di un’ingiustizia senza proferire parola, sia complicità, soprattutto sui social.
Se ci riflettiamo, passiamo la maggior parte del nostro tempo a scrollare e guardare, leggere, interagire velocemente con le reazioni; magari a volte lo lasciamo pure qualche commento, però poi se la discussione si fa più impegnativa la abbandoniamo. O avendo il sentore che possa succedere, non scriviamo nemmeno.
Il risultato ce l’abbiamo tutti i giorni sotto agli occhi: scrive chi ha tempo, ma si scrive poco, si scrive in assoluti, ché quelli possono solo ottenere consensi o dissensi netti, non discussioni col rischio di cambiare idea. Non viene voglia di avviare conversazioni con queste premesse qui. Quindi passiamo oltre. Qui, il silenzio è sinonimo di assenza.
Silenzio significa rispetto?
In queste settimane l’opinione pubblica del social è stata smossa da grandi macro-tematiche, che possiamo mettere sotto il cappello della rappresentazione.
HBO ha rimosso temporaneamente il film Via Col Vento dal suo catalogo per inserire un’introduzione di uno storico che possa spiegare il contesto del film e il popolo del social ha cominciato a sclerare.
La statua di Indro Montanelli è stata ricoperta di vernice e il popolo del social ha cominciato a sclerare.
L’app Immuni conteneva un’illustrazione stereotipata: dopo averlo fatto notare è stata cambiata e il popolo del social ha cominciato a sclerare.
#BlackLivesMatter vs. #AllLivesMatter e lo sclero pure qui.
È vero che la nostra audience sui social è tutta diversa e quindi parlare di cosa succede può aiutare delle persone che non sono state raggiunte dall’informazione ad averla, soprattutto se corredata da un’opinione che lo aiuti a decifrare una notizia (es. prima di qualche anno fa io non sapevo la storia di Indro Montanelli), però scrollando il nostro feed abbiamo quella sensazione di ridondanza che ci fa venire voglia di chiudere la pagina e cancellarci (altresì detto detox o burnout da social). È colpa nostra o dell’algoritmo? Credo quest’ultimo, ma chissà come si risolverà questo problema nel corso degli anni. Nel frattempo continuo a pensare:
Come si comunica bene un silenzio?
Quello sano, quello che dice “sono qui anche se non mi senti” o “sto lottando accanto a te”; è un mi piace? Una propic? Anche qui, credo che la rappresentazione che ho trovato funzionale per me sia quella di non occupare uno spazio nel feed se non strettamente necessario alla mia piccola comunità. Fare donazioni in denaro o tempo alle cause ben documentate e/o veicolate da persone che hanno la mia stima personale e/o virtuale. Condividere post importanti da persone che hanno espresso un’opinione simile alla mia (messaggio prima dell’ego personale). Documentarsi e fare divulgazione anche se mentre la facciamo non ci guarda nessuno. Assicuro che è più efficace.
E come si comunica una presenza col silenzio?
Via web è difficile esserci senza parlarsi. Siamo il bollino verde nella lista di qualcuno, l’online che appare che senza quel “…sta scrivendo” ti comunica indifferenza, quasi. Siamo la persona nella friendlist che non contattiamo mai. Ci leggiamo e nessuno di noi sa che lo stiamo facendo. Non c’è l’equivalente online di stare seduti insieme su una panchina. Facebook ci ha provato con i “poke”, una volta ci facevamo gli squilli, adesso ci tagghiamo sotto i meme anche se non ci parliamo da secoli. Forse non è lo stesso. Ma è qualcosa che ci tiene legati anche senza le parole, senza i gesti, senza gli sguardi che si incontrano. E quindi forse il segreto del silenzio, affinché esso venga visto come presenza e non come indifferenza, sta probabilmente in un soffio di dati, una carezza alla tastiera. Altrimenti è solo vuoto. Perché i pensieri non hanno le spunte blu.
Linkini
La masturbazione spiegata dalle donne queer. Nel caso aveste bisogno di un ripasso.
Video anniversario 3 anni di una coppia di donne gay. Non sto piangendo, no.
Questo canale fa cover di canzoni in stile medievale. Fatte da dio.
Amarcord trash: La tecnica del pompilmo (?) (NSFW), ossia come fare una fellatio con un pompelmo. Se vi state chiedendo il perché, la domanda giusta, per la moglie di Will Smith è a quanto pare “perché no?”.
Anche oggi, Anneddoti finisce qui. Puoi supportarmi leggendo i miei vecchi scleri e farmi sapere che ne pensi, puoi rispondere a questa email se vuoi parlarne con me oppure mandarmi un meme o un messaggino. Offrirmi un caffè che non bevo (vi ringrazio davvero, ragazzi) o seguirmi su Facebook per farmi diventare l’influencer dei boomers.
Noi ci sentiamo presto, spero. Immaginatemi andare via eseguendo un arabesque sulle note di Edith Piaf.