Ciao, persona che legge queste righe, io sono Anna e tu sei su anneddoti, la newsletter che ti offre una riflessione sul digitale ogni volta che mi decido a scriverla. Se vai di fretta, oggi il menù propone: abbiamo esaurito i contenuti originali? Che impatto ha il nostro postare le cose sui social network per l'ambiente? E che senso ha mandare la stessa foto dello stesso posto che avranno sicuramente fatto altre trecentomiliardidigente?
Mi chiedo da anni quante foto uguali facciamo in giro per il mondo. Me lo domando ancora di più da quando vivo a Roma, mentre centinaia di turisti ammucchiati cercano il proprio spot per i selfie, la foto di quel monumento, di quello scorcio. Quando sono arrivata qui, ricordo con il sorriso la fila infinita fatta per sbirciare dal buco della serratura dell’Ordine di Malta con la mia guida personale Camilla (ciao, se mi stai leggendo!), che si era offerta di farmi vedere una Roma meno turistica. Era una fila creata perché la gente rimaneva lì per scattare la foto perfetta di questo scorcio visto attraverso il buco della serratura. Ora, voglio dire, quanto potrà essere originale una foto da lì? Se il risultato di quegli scatti non è uguale, poco ci manca.
Eppure eccoci, tutti in fila per il nostro content.
Natasha Negovanlis (sì, quella di Carmilla, per la mia crew lgbtq+ che ci legge) scrive in un suo pezzo che parla di tutt’altro una frase che risuona con quello che ci stiamo dicendo, che adatto al mio contesto: c’è qualcosa di deliziosamente umano su come le persone attorno a noi cercano disperatamente di catturare il cielo costellato da esplosioni colorate, che altro non sono che fuochi d’artificio, con i loro telefoni. Questi piccoli, maledetti specchi neri, che non rendono mai giustizia a questa vita.
Disperazione, lei usa una parola giusta. Abbiamo il disperato bisogno di fermare il momento, racchiuderlo per ricordarci che siamo state persone felici, tristi, abbiamo riso, abbiamo pensato, abbiamo fatto cose pazze, siamo state in quel luogo. E usiamo lo strumento che più può aiutarci in questa missione. Fin qui non c’è nulla di strano.
Anche l’impulso di condividere emozioni, racconti, storie con gli altri è qualcosa di estremamente naturale.
Questo processo genera però due problemi, o comunque due avvisaglie di qualcosa che potrebbe richiederci il conto tra poco/tra qualche anno: una di tipo ambientale e un’altra che non so come definire, ma che può essere simile all’overload di informazioni.
Nel momento in cui collettivamente postiamo la stessa identica foto, riprendo l’esempio di Negovanlis prima citando uno spettacolo pirotecnico, questa foto occupa uno spazio digitale E fisico. I data center dei social network.
Cito il New York Times in un pezzo del 2012: “Worldwide, the digital warehouses use about 30 billion watts of electricity, roughly equivalent to the output of 30 nuclear power plants, according to estimates industry experts compiled for The Times. Data centers in the United States account for one-quarter to one-third of that load, the estimates show. […] “A single data center can take more power than a medium-size town.”.
In dieci anni ovviamente qualcosa è stato fatto e i piani delle big company sono scritti ovunque a caratteri cubitali, penso a Google, ad esempio.
Ma oltre a prendere coscienza dei piani a lungo termine delle aziende, a noi, singolarmente, manca ancora quell’igiene digitale che citavo qualche anneddoto fa, che parte dalla nostra incapacità di pensare a Internet come qualcosa di fisico, tangibile, reale. Non è astratto e non è infinito. Internet è cavi, computer, migliaia di metri quadri di pc che conservano la foto della nostra colazione del 2013 in duplice copia.
Se stai pensando: ma wow questa anneddoti spacca, dovrei supportarla! Puoi farlo in molti modi. Followami su Instagram, iscriviti al mio gruppo su Telegram, mandami dei soldi, lascia un commento / rispondi alla mail o condividi questa newsletter.
Scusa, è l’internet, funziona così. O mi paghi le bollette o mi paghi l’ego. O continuerai a sentirti in colpa per aver divorato questo contenuto nel silenzio della tua cameretta.
Non ti stai sentendo ancora in colpa? No? Ti sto fissando.
Non possiamo paragonare il postare la foto del nostro pranzo sui social al gettare una cartaccia per strada. O forse sì?
Pensiamoci insieme: perché lo faccio? Scrivo alcune supposizioni per come sono fatta io:
Perché l’estetica del piatto è pazzesca e smuove un’emozione (invidia, acquolina, pace, fame, si spera) che genera reazione (like, commento, condivisione).
Perché sono a pranzo con una persona speciale e voglio ricordarmi il momento.
Perché con questo gesto faccio sapere alla gente che sono viva e sono in quel posto figo che mi avevano consigliato.
Ma se lo fa ogni singola persona ogni giorno, non rischia di depotenziare il gesto e di generare l’altra conseguenza che citavo prima, ossia l’overload di contenuto con conseguente bisogno di ciò che chiamiamo “digital detox”, che altro non è che “mi sono rotta il cazzo dei contenuti degli altri e di essere così dipendente da queste notifiche”?
Parto da lontano e dal personale per arrivare al punto: quando mi sono scoperta gay, pensavo di essere l’unica ad avere questa storia. Ve lo giuro, stavo con una donna più grande di me, fino a quel momento professatasi etero fino al midollo, aveva lasciato il suo fidanzato, addirittura. Il mio primo amore, finito poi un anno dopo perché “ho 36 anni e devo farmi una famiglia”. Ero distrutta, non solo perché era il mio primo amore e tutt- sappiamo quanto sia devastante la prima volta che ci spezzano il cuore. Ma lo ero ancor di più perché pensavo a questa storia ASSURDA che NESSUNO mai ha vissuto, sicuramente. Mi sentivo sola. Poi con la scoperta di luoghi di discussione lgbtq+, sono giunta alla conclusione che non solo la mia storia era più comune di quanto pensassi, ma che addirittura sfioravo il cliché.
Questo però io non l’avrei mai scoperto (in breve tempo) senza l’utilizzo di Internet. Avevo 21 anni quando ho scoperto la comunità lesbica online. Ho vissuto quella relazione quando ne avevo 19.
Ho passato due anni a pensare di essere l’unica e sola ad avere questa storia.
Con il web e nel corso del tempo abbiamo scoperto non solo cose come questa qui su, ma che “we all live the same lives”, come dice il commento più scritto su Tik Tok sotto i video di mamme che lanciano la ciabatta, nonne che cucinano l’infinito e si incazzano se non mangi e altre cose.
Moltissime delle esperienze che facciamo in questa vita accomunano la maggior parte di noi. Lo sappiamo perché adesso abbiamo una realtà in cui possiamo consultare tutto il materiale prodotto dagli altri abitanti del pianeta con una connessione.
Non siamo originali.
Stavo ascoltando un podcast mentre facevo la doccia e diceva che a breve succederanno due cose: o tutte le persone diventano webstar o per esserlo devi veramente avere numeri della madonna e fare qualcosa che non sia semplicemente essere te stesso, immaginando la fine imminente dell’epoca del culto della personalità.
Oggi su internet abitiamo l’era in cui basta essere, per diventare celebrità. Basta un’azione ripetuta nel tempo e nei video (Khaby Lame), un’espressione facciale (András Arató, meglio noto come Hide The Pain Harold).
La podcaster lamentava ciò che dicevo anche io nel precedente anneddoto, parlando del fatto che mi ero stancata delle dinamiche social. E se forse ci siamo semplicemente annoiati dei contenuti?
Quanti vlog dobbiamo girare per renderci conto che non è più originale?
Quante volte ancora dobbiamo scattare la stessa foto, fare la recensione dello stesso film per renderci conto che non produciamo più nulla di originale?
Lei diceva. Io invece penso che proprio a questo punto nasca qualcosa di bellissimo, proprio frutto della ripetitività di contenuto, soprattutto su TikTok. Ci sono i meme che comprendono un filtro, una canzone, un modo di iniziare la frase o tutto questo messo assieme. L’evoluzione dei meme come li abbiamo conosciuti fino ad oggi, dal top-bottom text al nessuno: io: , passando per mood: e arrivando a veri e propri movimenti globali trainati da qualcosa X.
Pensandoci, anche i famosi balletti odiati da tantissime persone sono sempre lo stesso contenuto. Cosa lo differenzia? Le persone. Tutte diverse.
Andiamo ancora a fondo, però e diciamocelo: anche la vita è più o meno tutta uguale per tutti. Le esperienze che facciamo o con le quali veniamo in contatto.
Quindi significa che la vita è noiosa? No.
E cosa rende la vita su internet noiosa?
È l’esposizione a essa? Sono gli algoritmi che a forza di propinarci ciò che ci piace ci fanno fare abbuffate di content che dopo un po’ ci stufa? È la limitatezza del mezzo che ci consente solo di assistere e non di vivere esperienze?
Boh, io non lo so, ma mi sentivo di fare questa riflessione con voi. Ah, vi aspettavate una risposta? E che ne so io, mica sono una guru del digital. Chiedete a loro. Di solito hanno la barba e li trovate su Twitter. O in libreria, con il loro nuovo libro su come vivere la vita su internet.
Io continuo a pensare. E postare. Responsabilmente, si spera. Fatelo anche voi, se vi va.
Fonti
Power, Pollution and the Internet, The New York Times
How Polluting is the Internet, CCCBLab
Cose nuove/curiose da dire/citare/far vedere per fare bella figura agli aperitivi
“Non tornerò mai perché mai si torna” è il meme del momento.
Questa ragazza fa delle ricette in completo disagio ed è l’essenza di TikTok.
Ceramiche vintage con insulti/frasi femministe? Sì, lo voglio.