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Devo smetterla con i titoli clickbait? Però mi piacciono, come faccio
Buongiornissimo cari internauti e benvenuti nella #5 puntata di Anneddoti, un’altra newsletter che riceverete e che farete finta di leggere perché così va il mondo e la vita!
Oggi parlerò di due macro-argomenti, partendo dalle dichiarazioni sessiste di Amadeus e il video pubblicato da Amazon che vede dei dipendenti di una filiale trasformarsi in attori da musical.
Sono un po’ lunghetti, quindi preparatevi dei pop-corn da sgranocchiare durante questa chilometrica letterina.
Ma se si sono sempre scelte le donne belle per Sanremo ora qual è il problema?
Spoiler: il problema è il rincoglionimento.
Il riassunto delle puntate precedenti: Amadeus, durante la conferenza stampa per presentare le co-conduttrici di Sanremo, pronuncia delle frasi infelici e continua a ripetere a raffica che tutte le donne scelte sono belle, bellissime. La polemica scoppia in rete, da una parte attaccando le parole del neo conduttore della kermesse sanremese e dall’altra alcuni individui che dicono “beh vabbè, e che è, una novità che si scelgono le ragazze belle?”.
Punto positivo: le dichiarazioni su “donna-come-oggetto-da-esposizione” cominciano a far storcere il naso, anche in contesti medievali come Sanremo.
Punto negativo: il “bellezza-gate”.
La “bella presenza” è un requisito (illegale, secondo la filosofia HR, ma tuttavia ancora presente) di molti annunci di lavoro, la maggior parte di questi rivolti a donne, ovviamente: cameriere, receptionist, estetiste, ballerine, modelle per pubblicità. Se troviamo 383 offerte di lavoro con questa richiesta, solo su Milano, capiamo che “essere belli” diventa un asset da curriculum, una caratteristica che, se ce l’hai, ti permette di avere alcuni vantaggi sociali/lavorativi.
Non è un segreto per nessuno che molte donne vengano scelte perché “di bella presenza”, ove questo diventa un vantaggio da sfruttare; è uno scandalo se la donna utilizza questo asset per improntarci una carriera in cui si trasforma in soggetto della narrazione, infatti ci incazziamo tantissimo quando quella streamer fa gameplay con le tette di fuori o sfrutta la sua bellezza per ottenere dei vantaggi facendo social hacking.
Ma leggere la frase così come l’ho scritta è una grossa bugia che ci raccontiamo, perché andrebbe letta così: la ragazza non sfrutta la sua bellezza, bensì sfrutta una posizione sociale nella quale è stata inserita da chi esercita l’influenza maggiore.
Il fulcro del bellezza-gate è questo: è una dinamica del patriarcato. Come tutte le cose, o si subisce o si utilizza a proprio vantaggio.
Quindi se persona X ha improntato tutta la sua carriera sull’essere bella, non è perché non sappia fare altro, ma perché in un mondo in cui rientrare in determinati canoni rappresenta una vera e propria hard skill da curriculum, tutto questo è già qualcosa, è già tutto.
Va colpevolizzata la donna che viene assunta o si crea un proprio business attorno a questo? No.
Va colpevolizzata questa dinamica imposta? Sì.
Cosa si potrebbe fare per distruggere questo meccanismo? Ad esempio, nel caso di Sanremo, scegliere donne ‘diverse’ tra loro, con un aspetto diverso, con storie differenti, che possano essere ‘il simbolo’ di una nuova società. Nel nostro caso, invece, smettere di scrivere sui social o dire alla propria audience che questo non sia un caso di sessismo, perché “si sa che vengono scelte delle donne belle”. È sessismo nella sua versione più nascosta possibile, perché così radicato dentro di noi da non riconoscerlo.
Riguardo invece le dichiarazioni di Amadeus, lascio parlare Michela Murgia, mia eroina della vita: Michela Murgia commenta le dichiarazioni di Amadeus.
Il nostro modo di utilizzare i social fa schifo al cazzo
Esiste una corrente di pensiero per la quale dovremmo fare più spesso un detox digitale e che questa pratica consista nel non utilizzare i social network o lo smartphone o qualsiasi altro dispositivo che ci faccia rimanere incollati a scrollare qualcosa nella perenne ricerca di soddisfazione personale, contenuti interessanti o entrambe le cose.
Tuttavia si parla ancora troppo poco di igiene digitale, educazione ai social e tutte quelle pratiche che potrebbero portare un vantaggio effettivo, più dell’astensione all’utilizzo di uno strumento. Fare detox digitale dovrebbe significare depurare l’ambiente da contenuti e/o atteggiamenti tossici per ristabilire un equilibrio o un benessere di ambienti comuni e condivisi come lo è internet.
Ci sono delle piccole pratiche che fanno la differenza quando siamo sul web: non lasciare commenti sgradevoli e/o spiacevoli è uno di questi, ad esempio, sia perché tendenzialmente non è bello farlo ma anche perché scrivere determinate cose in pubblico diventa la naturale continuazione del contenuto madre e non è mai bello leggere 200 commenti offensivi o che non portino valore.
Ma al di là dello specifico esempio e del macro argomento che ho preso e del quale continuerò a parlare finché avrò fiato, la situazione si complica quando certi comportamenti vengono validati da grandi aziende o broadcaster di contenuti che hanno un seguito vasto.
Ci sono certe cose che fanno schifo e poi ci sono certe cose che ormai vediamo e abbiamo normalizzato: si tratta di contenuti apparentemente innocui che dietro hanno dei sottotesti terrificanti.
Vi ricorderete tutti del caso del video di Katia Ghirardi della filiale di Intesa San Paolo di Castiglione delle Stiviere. Un contest aziendale interno, per il quale molti dipendenti si erano lanciati in questa prova di creatività.
I problemi sono due: questo video, finendo online e subendo la derisione pubblica, ha però generato un forte engagement (ergo, contenuto che funziona sui social), diventando VIRALE, ossia ciò che ogni persona sulla Terra si augura che succeda al suo contenuto e metrica di assoluto successo richiesta da ogni capo al malcapitato Social Media Manager (nella migliore delle ipotesi, non improvvisato tale).
Il secondo è che delle persone che nella vita fanno tutt’altro vengano chiamate ad eseguire determinate prestazioni che esulano dalle loro competenze professionali e/o dalle mansioni dei loro contratti per generare contenuti per i social network, che a volte vengono visti come appendici inutili e altre volte (in base a come gira il trend del momento) macchine da soldi facili e veloci.
Tutto questo mix ci porta a vedere in questi giorni un gigante come Amazon che fa fare ai propri dipendenti un video in cui ballano per la filiale dicendo “siamo tanti e colorati / una famiglia di talenti / è Amazon il posto giusto / si lavora con passione / per spedire un’emozione” seguite dalle parole “have fun”, “make history”.
Non è un segreto che Amazon sia nota anche per le condizioni poco felici dei suoi dipendenti. Quindi è facile fare 2+2. Questa campagna o è un contenuto occasionale (e qui è comunque un errore perché si tratterebbe di incapacità di redigere un piano editoriale coerente con le fondamenta del brand) o è parte di una campagna (terribile, a mio avviso) che ha come oggetto quello di migliorare la percezione del marchio sotto questo punto di vista (ossia le condizioni lavorative).
Lavorare in compagnia e con un team simpatico può essere divertente, sicuramente, considerando che passiamo quasi la maggior parte del nostro tempo: ma far dire ai tuoi dipendenti che si divertono un sacco o illuderti che lavorare sia divertente è il coronamento del sogno capitalistico.
E non parliamo poi del “make history”: Jeff Bezos sì che la sta facendo, diventando secondo Forbes 2019 la persona più ricca al mondo, grazie principalmente al suo Amazon che è il più grande e-commerce del pianeta. Tu stai offrendo la tua efficienza per far sì che qualcuno riceva il suo pacco integro e in orario e Bezos arricchisca il suo patrimonio. E non la chiamerei fare la storia.
Non c’è nulla di male nel fare qualsiasi lavoro da dipendenti, ma non illudiamoci di essere felici perché lo facciamo, ma di quel che facciamo, delle persone dalle quali siamo circondate, dai legami che stringiamo grazie ad esso, che poco hanno a che vedere con l’attività di per sé.
Ma al di là del discorso anti-capitalista e da sindacalista che sto facendo, ritornando al topic principale, chiedere ai propri dipendenti di fare queste cose è triste: perché ancora una volta perdiamo un’occasione per comunicare valori veri, per dirsi la verità, per avvicinarsi davvero al cliente.
Questo è un altro contenuto che va ad alimentare la macchina del cringe, del for the lol, di quei contenuti così brutti che si può solo ridere, che generando engagement si crede che funzionino, continuando a chiuderci nel loop della produzione di contenuti falsi, tristi, umilianti, irrilevanti, inutili. In poche parole: di merda.
Reading List & Cose utili & cose di cui non ve ne frega una minchia ma sono lol
Una nonnina suona la batteria di Down with the Sickness dei Disturbed. Oh-wa-ah-ah-ah.
I video non hanno sottotitoli: fa causa a Pornhub.
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