Boss dei videogiochi = malvagità?
Ciao teleleggitory di anneddoti, sono come al solito Anna e state per leggere un episodio in cui faccio una riflessione partendo dai videogiochi. È un testo che ho scritto un po’ di tempo fa, cancellatomi dal sito in cui era stato pubblicato (faremo finta di credere che sia stato casuale) e che mi dispiaceva rimanesse abbandonato. Quindi eccolo, ciao. PS. in questo pezzo non sono sempre riuscita a volgere all’impersonale “il boss”, piegandomi dunque ad utilizzare un maschile sovraesteso, accetto nei commenti eventuali correzioni da poter fare.
Ci sono i nemici e poi c’è il/la/* boss di fine livello. Quello sì che lo identifichiamo come cattivo/a/*, villain per eccellenza. Ci fa bestemmiare e lanciare il pad (o spaccare la tastiera), ci fa studiare piani d’attacco che farebbero impallidire gli strateghi di guerra e incarna la fonte principale di frustrazione nostra e, soprattutto, del personaggio protagonista del videogioco che stiamo giocando.
I miei primi esaurimenti nervosi li ho avuti confrontandomi con Tiny Tiger, in Crash Bandicoot 2. Ero ancora una bambina e sentivo la pressione delle ansie decisionali già allora, nel cercare di capire quale piattaforma non avrebbe fatto sprofondare il mio marsupiale preferito nell’abisso. Anni dopo avrebbero fatto un episodio di Squid Game simile e un livello di Fall Guys con la stessa dinamica, per continuare a far rivivere al mio cervello il ricordo della me bambina. Ma non è questa la sede per rievocare tutti i traumi inflitti dai cattivoni di pixel della mia vita da videogiocatrice.
Entriamo in modalità Alberto Angela: la figura del boss fa il suo esordio nel 1975, il videogioco è dnd, pubblicato per il sistema informatico PLATO; esso era un drago dorato, e la sua posizione lavorativa recitava così: guardiano del cuore del dungeon. È interessante vedere come il primo cattivo dei videogiochi abbia le sembianze di questa creatura mitologica, da sempre parte della storia umana. La figura deriva dalla nostra storia evolutiva come primati, considerando che i primi acerrimi nemici dell’uomo primitivo erano proprio serpenti, grandi felini e uccelli rapaci.
Volendoci far caso senza nemmeno metterci troppo impegno mentale effettivamente, i draghi sono il mashup di queste creature: le ali prese in prestito dal mondo dei volatili, gli artigli e la faccia di un leone, la pelle dei rettili. E non possiamo fare a meno di notare come questa figura sia rimasta nell’immaginario umano nelle varie mitologie di civiltà che non erano a conoscenza della reciproca esistenza. Il drago alato Quetzalcoatl degli aztechi non sapeva di avere un fratello in Cina, il leggendario dragone del folklore locale, ma tant’è. Per non parlare delle infinite storie medievali di cavalieri che combattono i draghi e salvano le damigelle. Insomma, potenti creature che diventano il test finale del coraggio dell’umanità, mostri che ci impediscono di raggiungere un risultato che potrebbe svoltarci la vita (virtuale), come la conquista di un tesoro o la conquista della… lo avete capito, non lo scrivo.
Il drago dorato di dnd introdusse molti dei concetti base che alla fine diventarono le caratteristiche standard di una lotta col boss: era un nemico più difficile da sconfiggere rispetto ai suoi minion sparsi per il livello, a partire dal numero di HP. La lotta col dragone per raggiungere il tesoro era incoraggiata da vari messaggi in game all’inizio di ogni mappa. Chi ci giocava poteva decidere di affrontarlo in ogni momento della sua avventura, considerando la progressione non lineare del gioco. Questo escamotage enfatizzava lo scopo del boss, come fosse appunto il test finale delle capacità di chi gioca; sì, potevi decidere di andarci subito, ma ogni player con un po’ di buon senso sa che bisogna livellare abbastanza da ottenere armamentario, abilità ed esperienza prima di imbarcarsi in un’impresa del genere, soprattutto sapendo che la sconfitta poteva riportarti al punto di partenza. Game over.
Siamo nella metà degli anni ’80, mi immagino You Spin Me Round dei Dead or Alive nello stereo e sempre più persone che si avvicinano al mondo dei videogiochi, perché le console domestiche diventano la moda del momento e iniziano a fiorire i primi franchise nella storia dei videogame. La differenza con gli arcade diventa sostanziale: lo scopo non è più far spendere tutto lo stipendio al cabinato attraverso un gameplay fatto di livelli infiniti ed estremamente sfidanti, perché a partire da quel momento, un titolo poteva essere rigiocato a piacimento. Se il videogame formato arcade era progettato per — appunto — essere una sfida di abilità e quindi il boss consacrava un player nella hall of fame che faceva ottenere l’adorazione totale della sala giochi, il cattivo finale delle console invece era la nemesi dell’eroe, rappresentava il simbolo di risoluzione del conflitto alla base della storia del videogioco in questione. È proprio in questo periodo che nasce la nomenclatura ‘boss’, anche se le sue origini sono incerte — si dice provenga da uno dei più terribili nemici di Galaga, ossia Boss Galagas, ma l’opzione più probabile è che il gergo da gamer abbia trionfato e il termine usato nelle loro conversazioni, in quanto si dava per scontato che il grande nemico fosse il capo (boss, appunto) della banda di piccoli cattivi sparsi per i livelli, sia diventato lo standard.
Però la domanda che forse chiunque abbia mai giocato intensamente a un videogioco ha pensato almeno una volta è: il boss è davvero cattivo? O forse me lo sono chiesta solo io e per questo ci ho scritto un pezzo. La storia ci porta a pensare che boss sia sinonimo di maligno e che quella figura messa lì che tenta di ucciderci lo faccia perché spinta dalla furia cieca di sterminare tutto, conquistare il mondo e rubare le caramelle ai bambini. Il cattivo di per sé viene stereotipato in questa figura oscura, in contrapposizione al bene. Una lotta tra chiaro e scuro, tra Paradiso ed Inferno. Non per nulla Satana viene utilizzato dalla notte dei tempi come sinonimo di malvagità. Eppure, analizzando l’etimologia della parola (e non servono approfonditi studi linguistici ma solo il sito della Treccani), apprendiamo la sua derivazione dall'ebraico Sāṭān, che significa “oppositore, avversario, nemico”, senza alcun riferimento all’oscurità del personaggio.
È impossibile a questo punto non citare Shadow of the Colossus, che introduce il concetto di boss-only game (sì, ok, Donkey Kong). Ad ogni modo, nel titolo vestiamo i panni di Wander in questa realtà abbandonata e silente, con il compito, dato da una divinità antica, di distruggere sedici esseri con le fattezze di bestie di pietra, per ottenere in cambio la resurrezione di una ragazza, Mono, a cui tiene tantissimo. L’atmosfera di ogni posto e incontro mischia momenti solitari e pacifici con battaglie che sono un crescendo in termini di epicità ed emozioni suscitate. La particolarità del gioco è che le implicazioni dell’eroe non sono classificabili come bianco/nero ma sono qualcosa di estremamente umano. Il suo scopo è egoista e il risultato della distruzione dei colossi potrebbe essere catastrofico, ma comunque siamo chiamaty a percorrere questa missione cercando di empatizzare con lui. Un sacco di colossi non ci attaccheranno nemmeno, a meno che non siano provocati e sono rappresentati come animali cacciati, nell’estremo tentativo di difendersi. Shadow of the Colossus nel 2005 instilla in noi il dubbio che a volte l’antagonista che affrontiamo nei videogiochi non è per forza quella bestia cattiva e feroce che vuole distruggere tutto e chiunque. Le battaglie con i boss quindi possono essere semplicemente contro esseri viventi, contro le loro emozioni, contro la loro voglia di vivere. Contro noi stessi e le nostre abilità.
E quindi mi viene da pensare: e se identificassimo il boss come cattivo perché ci mette faccia a faccia con una difficoltà che non crediamo di poter superare? E se, per affrontarla, dovessimo mettere in discussione tutto quello che abbiamo imparato fino a quel momento in termini di abilità, equipaggiamento e routine da gameplay? Vi risulta sia un po’ simile con la nostra vita offline?
L’entità considerata malvagia lo è perché in qualche modo simile al/alla/a* protagonista che impersoniamo ma diversa perché ha abbracciato un lato oscuro a cui non abbiamo dato ascolto o che teniamo a bada. Ed è in questo momento che la lotta diventa metafora di un essere umano che combatte per migliorarsi, più che per sola sopravvivenza come abbiamo osservato nella storia dei nostri antenati. Diventa uno scambio in cui alla fine, è difficile distinguere il buono dal cattivo in quanto entrambi sono entrambe le cose. Un boss che più lo picchi e più diventa forte e spietato non è più cattivo del nostro personaggio che quando è in fin di vita sblocca gli attacchi speciali che fanno un casino di danno. Perché è la vita che ce lo insegna: quando ci ritroviamo alle strette, siamo portati a reagire con tutta la forza che ci rimane.
Affrontare un boss di livello diventa quindi una sorta di metafora del cambiamento: considerando che tendiamo ad essere abitudinari, ci convinciamo che per sconfiggerli basti la tecnica che abbiamo già provato. Ed è lì che il boss ti dice no, ti mette al tappeto e ti costringe a reinventarti, così come ha fatto lui con te con mille trasformazioni e fasi proprio quando pensavi di averlo sconfitto. Ed è in questo momento che si vede che forse l’eroe e il boss funzionano uguale. E forse bene o male non sono così netti.